Con ordinanza del 17 marzo del 2017 la Corte d’Appello di Trieste ha sollevato delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73 co. 1 del DPR 309/90 per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 Cost., nella parte in cui per effetto della sentenza costituzionale 32 del 2014 prevede la pena minima edittale di anni otto anziché quella di anni sei, precedentemente introdotta dall’art. 4 bis del D.L. 272 del 2005, disposizione dichiarata incostituzionale proprio dalla sentenza n. 32 del 2014.
Innanzitutto, l’ordinanza denuncia la violazione del principio della riserva di legge in materia penale, di cui all’art. 25 co. II Cost. in base al quale gli interventi volti a inasprire le sanzioni appartengono al monopolio esclusivo del legislatore. Invece, la previsione della pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni in luogo di quella di sei anni viola l’art. 25 Cost. poiché tale trattamento sanzionatorio è stato introdotto nell’ordinamento come conseguenza della sentenza delle Corte Costituzionale n. 32 del 2014.
Secondo la Corte Costituzionale la questione è inammissibile perché avverso le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione e tale questione sostanzialmente rappresenta un improprio tentativo di impugnazione della sentenza costituzionale n. 32 del 2014.
In secondo luogo, la Corte rimettente evidenzia l’irragionevolezza della dosimetria della pena prevista dal vigente art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto “droghe pesanti”; irragionevolezza che emerge dal raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto per il fatto di lieve entità (punito da sei mesi a quattro anni di reclusione) dal comma 5 dell’art. 73 cit. e con quello previsto per le cosiddette “droghe leggere” (da due a sei anni di reclusione) dal comma 4 dell’art. 73 cit.
Il giudice rimettente evidenzia che, nonostante la linea di demarcazione «naturalistica» tra le fattispecie «ordinaria» e quella «lieve» non sia sempre netta, il «confine sanzionatorio» dell’una e dell’altra incriminazione è invece troppo e, quindi, irragionevolmente, distante (intercorrendo ben quattro anni di pena detentiva fra il minimo dell’una e il massimo dell’altra).
Tale differenza sanzionatoria fra la fattispecie «ordinaria» e quella «lieve» è del tutto irragionevole e in quanto tale oggettivamente contrastante con l’art. 3 Cost.
Connesso a tale motivo è quello relativo al contrasto dell’attuale trattamento sanzionatorio di cui al comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990 «con il principio di proporzionalità e il principio di colpevolezza e di necessaria finalizzazione rieducativa della pena, riconducibile al disposto degli artt. 3 e 27 Cost.».
Difatti, la pena per definirsi giusta e svolgere la sua funzione rieducativa va adeguata all’effettiva responsabilità penale, in modo da assicurare la piena proporzionalità fra l’offesa e la qualità e quantità della sanzione. Sicché una pena ingiustificatamente aspra viola, al contempo, il principio di proporzionalità della pena (art. 3 Cost.), e quello della finalità rieducativa della stessa (art. 27 Cost.).
La Corte Costituzionale ha ritenuto le ultime due questioni, concernenti l’irragionevolezza e la sproporzione del trattamento sanzionatorio, ammissibili e fondate nel merito.
Preliminarmente, va rammentato che l’art. 73 DPR 309/90 al comma 1 punisce con la pena della reclusione da otto a venti anni i casi “non lievi” di coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta o messa in vendita, cessione o ricezione, a qualsiasi titolo, distribuzione, commercio, acquisto, trasporto, esportazione, importazione, procacciamento ad altri, invio, passaggio o spedizione in transito, consegna per qualunque scopo o comunque di illecita detenzione, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dall’art. 75 (ovvero, l’uso personale), di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’art. 14 (cosiddette “droghe pesanti”) dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990.
I giudici della Corte Costituzionale, nel valutare nel merito le questioni in ordine all’irragionevolezza e alla sproporzione del trattamento sanzionatorio, ripercorrono brevemente l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale della norma in esame da cui, invero, sarebbe scaturito l’illegittimo iato sanzionatorio.
L’originario art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto le droghe “pesanti” (puniti al comma 1 con la reclusione da otto a venti anni e con la multa) rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le droghe “leggere” (puniti al comma 4 con la reclusione da due a sei anni e con la multa).
Il comma 5 dell’art. 73 cit. riproduceva per i fatti di lieve entità la distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere”, prevedendo un’attenuante ad effetto speciale che puniva con la reclusione da uno a sei anni i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti” e da sei mesi a quattro anni quelli relativi alle droghe “leggere”, oltre alle rispettive sanzioni pecuniarie.
Il d.l. n. 272 del 2005, con l’art. 4-bis (poi dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 2014), aveva eliminato la distinzione tra droghe pesanti e leggere, comminando per i fatti di non lieve entità la pena della reclusione da sei a venti anni e la multa; e prevedendo per i fatti a cui era applicabile l’attenuante di lieve entità la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa.
Con il decreto-legge n. 146/2013, convertito nella legge n. 10 del 2014, la circostanza attenuante del fatto di lieve entità di cui al comma 5 dell’art. 73 è stata trasformata in fattispecie autonoma di reato ed è stato ridotto il limite edittale massimo della pena detentiva da sei a cinque anni di reclusione. Con la legge n. 79 del 2014 il legislatore ha diminuito ancora in anni quattro di reclusione il massimo edittale della pena prevista per il fatto di lieve entità.
A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies-ter del d.l. n. 272 /2005, ha ripreso applicazione il previgente art. 73 DPR 309/90 ed in particolare hanno ritrovato spazio le disposizioni che prevedevano per le ipotesi “ordinarie” la distinzione tra droghe pesanti (comma I, reclusione da otto a venti anni e multa) e droghe leggere (comma IV, reclusione da due a sei anni e multa).
L’intervento della sentenza n. 32 del 2014 non ha però toccato le modifiche di cui al comma 5 dell’art. 73 cit. che per i fatti di lieve entità prescinde dalla distinzione tra droghe pesanti e leggere e commina la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa.
È proprio a seguito degli interventi legislativi e giurisprudenziali che si è creata e, di volta in volta, ampliata la frattura che separa il trattamento sanzionatorio tra la fattispecie ordinaria e quella lieve.
La Corte Costituzionale osserva come molte condotte che hanno ad oggetto la droga si collocano in una “zona grigia”, al confine fra l’ordinario ed il lieve, il che rende non giustificabile questa differenza sanzionatoria, oltremodo sproporzionata considerando che il minimo edittale del fatto di non lieve entità (otto anni di reclusione) è pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve (quattro anni di reclusione).
L’ampiezza del divario sanzionatorio va ad incidere sulla valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto con il rischio di dar luogo a disuguaglianze in punto di pena.
Ne deriva, quindi, la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost.
Secondo la Corte Costituzionale l’espiazione di una pena oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto, quindi, soggettivamente percepita come ingiusta e inutilmente vessatoria e, dunque, destinata a non realizzare lo scopo rieducativo verso cui obbligatoriamente deve tendere.
Una pena non proporzionata alla gravità del fatto rappresenta un ostacolo alla sua funzione rieducativa e viola i principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. che «esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale» (sentenza n. 179 del 2017)
La Corte Costituzionale aggiunge che l’indicazione della misura della pena minima in sei anni di reclusione si evince dalla stessa evoluzione normativa in materia di stupefacenti:
- sei anni è altresì la pena massima prevista dal vigente comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le droghe leggere;
- in sei anni il legislatore aveva altresì individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti” (secondo il testo originario dell’art. 73 comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990);
- sei anni era il limite massimo della pena per i fatti lievi previsto anche dal successivo d.l. n. 272 del 2005.
Sicché, a parere delle Corte Costituzionale, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che si pongono nella cosiddetta “zona grigia” tra le fattispecie ordinarie e quelle lievi.
Pertanto, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73 comma 1, del DPR 309/90 (Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti) nella parte in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni.
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Leggi qui il comunicato e la sentenza n. 40 del 2019.