L’accusa mossa originariamente alla nostra assistita era quella di aver eseguito un furto in abitazione per aver rubato, durante lo svolgimento delle sue mansioni di infermiera, alcuni beni di proprietà di una paziente all’interno della sua abitazione. Nel corso del processo, tale reato era stato riqualificato in furto semplice.
1. MA COSA ERA ACCADUTO ESATTAMENTE?
Stando al provvedimento di primo grado, la nostra assistita riceveva una condanna per il reato di furto di cui all’art. 624 c.p. aggravato dall’art. 61 n.11 c.p. perché, al fine di trarne profitto – approfittando della fiducia che il mestiere da infermiera ispirava – in un momento in cui veniva lasciata sola in camera di una paziente si sarebbe impossessata di alcuni beni di valore personali appartenenti a tale ultima.
Secondo la ricostruzione accusatoria, la nostra cliente – la cui professione era di infermiera – durante una visita in casa di una paziente aveva provveduto ad eseguire un furto in abitazione di cui all’art. 624 bis c.p..
Tale disposizione punisce il delitto di furto in maniera ben più grave rispetto alla sua forma “base” quando la condotta viene realizzata all’interno dell’abitazione della vittima.
Il Tribunale, nonostante la prospettazione dell’accusa, aveva successivamente riqualificato il reato in quello di furto “semplice” di cui all’art. 624 c.p. riconoscendo però l’aggravante di cui all’art. 61 n.11 c.p.
Sulla scorta di tale lettura, dopo aver sentito i testimoni in primo grado di giudizio – in particolare il figlio della proprietaria dei gioielli – il giudice aveva deciso di condannare la cliente.
Ma analizziamo le leggi disposizioni che sono state applicate dal Giudice di Primo grado.
Con riferimento al reato di furto di cui all’art. 624 c.p. la legge prevede che: «Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516 ».
Invece, l’aggravante contestata ritenuta sussistente in primo grado è quella di cui all’art. 61 n.11 c.p il quale prevede che: «Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali , le circostanze seguenti: …l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o di ospitalità».
Nel caso di specie, il giudice aveva ritenuto che il rapporto di fiducia intercorrente tra infermiere e paziente avesse aggravato il disvalore del fatto e pertanto, la pena inflitta alla nostra assistita era stata aumentata.
2. COME ABBIAMO FATTO A RIBALTARE L’ESITO DEL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO?
Fondamentale è stata la scelta della nostra assistita di affidarsi ad Avvocati Penalisti esperti della materia: infatti, una volta comprese le motivazioni della sentenza di primo grado, abbiamo provveduto ad impugnare il provvedimento dinanzi la Corte d’Appello competente al fine di richiedere un secondo grado di giudizio.
Tra i motivi di appello, decisivo è stato quello con cui richiedevamo l’assoluzione della nostra assistita dal furto in abitazione per insufficienza della prova che l’imputata avesse commesso il fatto.
Infatti, attraverso una ricostruzione del materiale probatorio raccolto nel corso del processo di primo grado siamo riusciti a dimostrare che la condanna contro la nostra assistita si fondava su meri indizi contraddittori e che il giudice di primo grado li aveva erroneamente ritenuti “gravi precisi e concordanti” al punto da ritenere la nostra assistita responsabile “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Di seguito ti riporto il passaggio della sentenza di secondo grado con cui la Corte ha accolto il nostro motivo d’appello:
Dalla lettura della sentenza di primo emergeva chiaramente l’errore su cui si fondava la condanna: il Giudice aveva condannato l’imputata basando il provvedimento su una sola “prova” consistita nella dichiarazione del figlio della paziente il quale dichiarava che i gioielli erano “spariti” dall’abitazione in prossimità dell’intervento dell’infermiera all’interno dello stabile.
Tali affermazioni tuttavia, non trovavano alcun riscontro negli accertamenti eseguiti dagli investigatori: infatti, dalla perquisizione locale degli appartamenti dell’imputata alcun gioiello e bene di valore di quelli oggetto del processo erano stati rintracciati.
Inoltre, nemmeno presso negozi di “compro oro” presenti nella città di residenza dell’imputata erano state registrate “vendite sospette” di merce rubata.
Sulla scorta di tali elementi, attraverso un atto d’appello composto di sette motivi abbiamo dimostrato che la condanna si fondava su mere congetture e che alcun rimprovero poteva essere mosso alla nostra cliente, avendo la stessa svolto il suo mestiere con la Professionalità che la contraddistingue.
Ecco la sentenza emessa dalla Corte d’Appello con cui la nostra assistita è stata assolta dalle accuse:
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