Carceri. Superficie minima intramuraria di 3 metri quadrati. Il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza è esperibile esclusivamente per violazione di legge.
Cassazione penale sez. I Data:
27/11/2014 ( ud. 27/11/2014 , dep.19/12/2014 )
Numero:
53011
Classificazione
CASSAZIONE PENALE – Sanzioni pecuniarie
Intestazione
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIOTTO Maria Cristina – Presidente –
Dott. VECCHIO Massimo – rel. Consigliere –
Dott. TARDIO Angela – Consigliere –
Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere –
Dott. MAGI Raffaello – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
nei confronti di:
V.D. n. il (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 7239/2013 GIUD. SORVEGLIANZA di VENEZIA, del
06/02/2014;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MASSIMO VECCHIO;
Letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Dott.
VIOLA Alfredo Pompeo, sostituto procuratore generale della Repubblica
presso questa Corte, il quale ha concluso per la qualificazione del
ricorso come reclamo e per la trasmissione degli atti al Tribunale di
sorveglianza di Venezia.
Fatto
RILEVA IN FATTO E IN DIRITTO
1. – Con ordinanza, deliberata e depositata il 6 febbraio 2014, il Magistrato di sorveglianza di Venezia, in relazione al reclamo del detenuto in epigrafe indicato, deliberando in contraddittorio colla Amministrazione penitenziaria, costituitasi e resistente con memoria del 27 gennaio 2014, ha disposto l’allocazione del reclamante presso una stanza di pernottamento, con superficie calpestabile pro capite non inferiore a tre metri quadrati; ha rigettato la ulteriore istanze dell’interessato di assegnazione a cella di più ampia superficie e le doglianze in ordine ai servizi igienici, alle condizioni di illuminazione e di areazione, alla durata della permanenza giornaliera fuori cella; ha, infine, dichiarato non doversi procedere al regolamento delle spese del procedimento.
1.1 – In particolare il Magistrato di sorveglianza, sulla base dei dati forniti dalla Amministrazione penitenziaria, in ordine alla “metratura delle stanze di pernottamento” nelle quali è stato ristretto, di volta in volta, il reclamante, allo “spazio occupato dalle suppellettili” e al numero degli occupanti, ha accertato che “sempre o quasi sempre” e “anche senza tenere conto dell’ingombro costituito da letto, armadio e lavabo”, lo spazio intramurario assicurato al detenuto e ai compagni di cella era inferiore a tre metri quadrati pro capite.
1.2 – Quindi, riconosciuta l’esattezza del rilievo della Avvocatura distrettuale dello Stato sul punto che “nessuna norma di legge prevede la indicazione numerica della superficie che deve avere la cella per potere essere considerata adeguata e sufficiente alla al trattamento umano del detenuto”, il Giudice a quo ha richiamato i criteri affermati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, dalla sentenza pilota dell’8 gennaio 2013, Torreggiani, circa la determinazione dello “spazio vitale minimo” delle celle “al di sotto del quale … è ravvisabile la patente violazione” del divieto dei trattamenti inumani o degradanti stabilito dall’art. 3 CEDU. E ha concluso per la fondatezza della doglianza del reclamante, circa la insufficienza della ampiezza della camera di pernottamento e la inosservanza da parte della Amministrazione Penitenziaria della disposizione dell’articolo 6 dell’Ordinamento penitenziario.
1.3 – In ordine al regolamento delle spese, il Magistrato di sorveglianza ha divisato che la natura del procedimento “riconducibile a quello di esecuzione” esclude la applicazione del principio della soccombenza.
2. – Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro in carica pro tempore, organicamente rappresentato e legalmente difeso dalla competente Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, ha proposto ricorso per cassazione mediante atto recante la data del 19 febbraio 2014 (depositato il 20 febbraio 2014), col quale ha sviluppato due motivi.
2.1 – Col primo motivo di ricorso l’Avvocatura distrettuale ha denunziato violazione degli artt. 3, 46 CEDU, dell’art. 10 Cost., dell’art. 6 dell’Ordinamento penitenziario e del D.P.R. 25 marzo 1998, n. 138, Allegato C. Dopo aver censurato che l’accertamento del Magistrato di sorveglianza sul punto che “la superficie della cella in cui il reclamante è ristretto fosse inferiore a tre metri quadrati”, sarebbe stato non puntuale, bensì “desunto in base a una valutazione di massima di natura probabilistica”, la ricorrente nega, con vari argomenti e con richiamo alla sentenza della Corte EDU, 5 marzo 2012, caso Tellissi, che l’Amministrazione penitenziaria sia obbligata “ad assegnare il detenuto a spazi netti non inferiori a tre meri quadrati”; e oppone che si deve, invece, tenere conto della superficie lorda dei vani e, a tal fine, conteggiarsi “persino lo spessore dei muri interni e perimetrali sino a cinquanta centimetri”, secondo le diposizioni che disciplinano il computo della superficie catastale.
2.2 – Col secondo motivo di ricorso l’Avvocatura distrettuale ha denunziato violazione degli artt. 90, 91, 92, 112 c.p.c., artt. 8 e 158 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, censurando l’omesso regolamento delle spese del procedimento.
3. – Il detenuto ha resistito alla impugnazione, col ministero del difensore di fiducia, avvocato Florindo Ceccato, mediante memoria del 30 settembre 2014, instando per la “conferma” della ordinanza impugnata e la condanna del Ministero ricorrente alla rifusione delle spese processuali, per responsabilità aggravata, ai sensi dell’art. 96 c.p., con distrazione a favore del difensore antistatario.
4. – Il procuratore generale della Repubblica presso questa Corte suprema di cassazione, mediante atto recante la data del 16 giugno 2014, ha osservato: il giudice a quo ha qualificato il reclamo del detenuto, ai sensi dell’art. 35 bis, dell’Ordinamento penitenziario;
la disposizione prevede che avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza è ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza; non è esperibile, in via alternativa, il ricorso di legittimità per saltum, ammesso esclusivamente avverso le sentenze; la impugnazione “non correttamente indirizzata” deve essere riqualificata, ai sensi dell’art. 568 c.p.p., comma 5, come reclamo al tribunale di sorveglianza e trasmessa a quell’ufficio.
5. – Alla udienza camerale dell’11 novembre 2015, fissata per la trattazione del ricorso, il Collegio ha riservato la decisione alla odierna camera di consiglio.
6. – Riveste carattere preliminare la questione di diritto, in rito, della competenza di questa Corte di legittimità, quale giudice della impugnazione, a conoscere il ricorso, anche a fronte della espressa richiesta del Procuratore generale di qualificazione dell’atto come reclamo e di inoltro al Tribunale di sorveglianza di Venezia.
La questione deve essere risolta in senso positivo, in difformità della richiesta del Pubblico Ministero requirente.
6.1 – L’art. 35 bis dell’Ordinamento penitenziario dispone al comma 4 (modificato dalla legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 10, del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, che ha introdotto il citato articolo):
“Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza sul reclamo giurisdizionale è ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa”. Il successivo comma 4-bis (introdotto dalla citata legge di conversione) recita: “La decisione del tribunale di sorveglianza è ricorribile per cassazione per violazione di i legge nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito della decisione stessa”.
Ma il ricorso è stato presentato dalla Avvocatura distrettuale dello Stato il 20 febbraio 2014, nel vigore dell’art. 35 bis, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario nel testo introdotto dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 3, comma 1, lett. b), prima delle modificazioni apportate dalla legge di conversione promulgata il giorno successivo (v. supra).
La norma recitava: “4. Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza è ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge, nel termine di quindici giorni dalla notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito”.
L’Avvocatura distrettuale dello Stato aveva, pertanto, correttamente esperito il mezzo di impugnazione previsto ilio tempore dalla legge vigente al momento della presentazione del ricorso.
Sicchè, nella specie, la quaestio iuris si focalizza nel quesito se le modificazioni apportate dal legislatore della conversione in legge al sistema delle impugnazioni (colla sostituzione dell’art. 35 bis, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario e colla introduzione del comma 4 bis nel corpo nel medesimo articolo) incidano (escludendola) sulla competenza del giudice della impugnazione, già adito dalla parte ricorrente (la Corte suprema di cassazione) e comportino, conseguentemente, la traslatio iudici a favore del giudice divenuto competente iure superveniente (il Tribunale di sorveglianza di Venezia).
6.2 – In carenza di veruna disciplina transitoria trova pacificamene applicazione il principio giuridico di determinazione della competenza del tempus regit actum.
Se non che nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità è dato censire sensibili oscillazioni in merito alla individuazione del criterio ulteriore di collegamento ai fini della applicazione del succitato principio, in materia di impugnazioni.
Secondo un primo indirizzo lo ius superveniens trova immediata applicazione nei giudizi di impugnazione pendenti, non ostante che nel vigore della previgente disciplina il provvedimento impugnato sia stato deliberato e la impugnazione sia stata proposta, fatto salvo solo il caso della perpetuatio iurisdictionis, reputato ricorrente qualora il giudice ad quem abbia già “concretamente” incoato la trattazione della impugnazione (così, per tutte, in tema di revisione: Sez. Un., n. 1 del 03/02/1990 – dep. 16/03/1990, La Rocca, Rv. 183699: “Le modifiche alle regole sulla determinazione della competenza del giudice dovute all’entrata in vigore di nuove norme legislative operano con effetti immediati anche se il procedimento sia iniziato prima dell’entrata in vigore della legge modificatrice;
tale principio è temperato da quello della perpetuatio iurisdictionis per effetto del quale la competenza per i procedimenti di cui sia già iniziata la trattazione resta radicata presso il giudice competente ai sensi delle norme anteriormente vigenti”.
Le Sezioni Unite hanno spiegato, nella citata sentenza, che, ai fini della perpetuatio, “perchè lo iudicium possa considerarsi acceptum (con la conseguenza che ibi et finem accipere debet), non è sufficiente la semplice pendenza del procedimento davanti all’ufficio giudiziario, ma è necessario che il giudice abbia iniziato a conoscere del procedimento, abbia cioè esercitato attività di giurisdizione. In altre parole … perchè possa ritenersi operante il criterio della perpetuatio iurisdictionis … è necessario che il giudice … abbia iniziato concretamente la trattazione del giudizio prima dell’entrata in vigore delle nuove norme”.
Secondo un altro orientamento il criterio cronologico-procedimentale di collegamento è costituito dal momento della presentazione della impugnazione nel senso che la competenza del giudice ad quem si cristallizza alla stregua della disciplina in vigore all’epoca del deposito dell’atto e resta insensibile allo ius superveniens (Sez. 1, n. 5104 del 09/10/1996 – dep. 04/11/1996, Guarino A, Rv. 206145, in tema di riesame; Sez. 6, Sentenza n. 27858 del 22/05/2001 – dep. 11/07/2001, Bianco, Rv. 219974, in tema di appello delle sentenze di condanna alla sola pena della multa; Sez. 5, n. 17417 del 13/03/2007 – dep. 08/05/2007, Stampini e altri, Rv. 236553, in tema di appello della parte civile).
Mentre bisognerebbe far riferimento alla scadenza del termine per la proposizione della impugnazione, nel senso che “lo ius superveniens … si applica esclusivamente alle ipotesi nelle quali i termini per la proposizione dell’appello non siano ancora decorsi”, secondo l’arresto della Sez. 5, n. 2883 del 17/05/2000 – dep. 12/06/2000, Moresco, Rv. 216500.
Le Sezioni Unite, infine, sono ancora intervenute, modificando il loro precedente indirizzo, e hanno fissato il principio di diritto secondo il quale “ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorchè si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principio tempus regit actum impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. (Sez. Un., n. 27614 del 29/03/2007 – dep. 12/07/2007, P.C. in proc. Lista, Rv. 236537).
6.3 – A tale principio questo Collegio si uniforma e, in applicazione del medesimo, afferma la propria competenza a conoscere il ricorso proposto dall’Avvocatura distrettuale dello Stato.
Al momento, infatti, del deposito della ordinanza impugnata (6 febbraio 2014), era pacificamente esperibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento in parola, alla stregua (e indipendentemente dalla disposizione non convertita contenuta nell’originario art. 35 bis, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario) del combinato disposto dell’art. 35 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario, art. 666 c.p.p. (richiamato dal ridetto comma e recante la previsione del ricorso per cassazione) e della speciale disposizione dell’art. 71 ter, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario.
7. – Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
7.1 – E’ appena il caso di premettere che palesemente non pertinente è il richiamo della ricorrente alla norme tributarie, in materia del computo della superficie degli immobili ai fini castali.
Affatto diverso è – alla evidenza – l’oggetto del procedimento.
7.2 – Manifestamente infondata è, poi, la denunzia della supposta violazione di norme di legge.
In materia di spazi intramurari il legislatore non ha inteso stabilire precisi standard metrici di superficie, nè indici di densità/affollamento della popolazione reclusa (v. infra), come, peraltro, sostenuto dalla ricorrente dinnanzi al giudice a quo.
Sicchè non è ravvisabile, in radice, alcuna inosservanza o erronea applicazione di norme di legge nella decisione impugnata, la quale è, piuttosto, fondata sulla diversa valutazione del giudicante secondo il quale lo spazio intramurario nel quale il detenuto è ristretto comporta, per la esiguità della superficie, un “trattamento inumano o degradante”, vietato dalla legge.
7.3 – Epperò, anche in relazione alle residue censure proposte dalla ricorrente col primo mezzo di impugnazione, giova ricordare che l’art. 236 disp. coord. c.p.p., comma 2, (la norma dispone: “Nelle materie di competenza del tribunale di sorveglianza continuano ad applicarsi le disposizioni contenute dalla L. 26 luglio 1975, n. 354, diverse da quelle contenute nel capo II-bis del titolo II della stessa legge”) non reca alcun riferimento alle materie di competenza del magistrato di sorveglianza.
Consegue che l’art. 11 ter dell’Ordinamento penitenziario (contenuto nel capo 11 bis del titolo II) non è derogato in parte de qua dalla anzidetta norma di coordinamento (cfr. Cass., Sez. Un., 27 giugno 2006, n. 31461, Passamani, massima n. 234147, circa la intervenuta abrogazione delle disposizioni del suddetto capo 11-bis in relazione alle materie di competenza del tribunale di sorveglianza).
Sicchè il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza – ove ammesso – è esperibile esclusivamente per violazione di legge (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2003, n. 25079, Gianni; Sez. 1^, 12 novembre 2008, n. 44321, Araniti;
Sez. 1^, 12 febbraio 2009, n. 9508, Testa, non massimate sul punto, e Sez. 1^, 20 ottobre 2010, n. 39314, Farinella, massima n. 248844).
7.4 – Orbene, nella specie, oltre alla generica censura in ordine all’accertamento della superficie intramuraria, pro capite, calpestabile (peraltro incongruamente rappresentato come riferito alla superficie della cella), la ricorrente Avvocatura argomenta che il giudice a quo non si sarebbe attenuto al canone fissato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, colla sentenza del 5 marzo 2013, Tellissi, circa la determinazione dello spazio minimo intramurario da assicurare a ogni detenuto perchè lo stato non incorra nella violazione del divieto dei trattamenti inumani e degradanti, stabilito dall’art. 3 CEDU. E sostiene che lo standard di superficie minima pro capite di tre metri quadrati, siccome apprezzato dal Giudice Europeo, deve “essere conteggiato al lordo includendo sia la superficie degli arredi che quella” del servizio igienico.
7.5 – Nel sancire il divieto (della tortura,) delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti, l’art. 3 della Convenzione cit. non ha tipizzato le condotte integratrici della violazione del divieto.
Analogamente neppure l’art. 27 Cost., comma 2, stabilendo che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, ha stabilito alcuno specifico canone per la determinazione dei trattamenti vietati.
Con particolare riferimento agli spazi intramurari l’art. 6 dell’Ordinamento penitenziario prescrive, al comma 1, che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente…” e, al comma 2, che “i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti”.
La corrispondente disposizione dell’articolo 6 del Regolamento penitenziario non contiene alcuno stardard o parametro metrico in ordine alle dimensioni dei locali destinati al soggiorno dei detenuti e delle celle di pernottamento.
7.6 – Anche alla luce di criteri elaborati dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, mediante plurimi arresti, ha fissato canoni particolari in funzione di specifici standard dimensionali in ordine alla superficie degli spazi intramurari.
7.7 – Adito dalla doglianza del detenuto, di sottoposizione a trattamento inumano o degradante, per essere ristretto in ambienti carcerari di ampiezza così esigua da non soddisfare i requisiti minimi della abitabilità intramuraria fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, il giudice del reclamo è chiamato ad accertare e valutare la condizione di fatto della carcerazione; e tale valutazione è operata esclusivamente alla stregua dei canoni e degli standard giurisprudenziali, in difetto di alcuna disposizione normativa e tampoco legislativa o codicistica.
Sicchè lo scrutinio compiuto sulla base della regula di giudizio di matrice giurisprudenziale è sindacabile, sotto il profilo della violazione di legge, in relazione al vizio della motivazione, ai sensi dell’art. 11 ter dell’Ordinamento penitenziario in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, e, cioè, esclusivamente sotto il profilo della mancanza di motivazione.
7.8 – Tale vizio è pacificamente fuori discussione nel caso in esame.
Il giudice a quo ha. dato conto adeguatamente – come illustrato nel paragrafo che precede sub 1. – delle ragioni della propria decisione, sorretta da motivazione congrua e, pertanto, sottratta a ogni sindacato nella sede del presente scrutinio di legittimità.
7.9 – Conclusivamente le censure del ricorrente, non essendo riconducibili nè alla inosservanza, nè alla erronea applicazione di alcuna norma di legge, si risolvono nella proposizione di motivi non consentiti dalla legge col ricorso per cassazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza e, pertanto, sono inammissibili ai sensi dell’art. 606 c.p., comma 1, n. 3.
8. – Il secondo motivo di ricorso in punto di regolamento delle spese del procedimento non è fondato.
8.1 – Per vero non appare condivisibile l’assunto – posto dal giudice a quo a fondamento della declaratoria di non farsi luogo al regolamento della spese inter partes – della assimilazione del nuovo procedimento, di “reclamo giurisdizionale”, al procedimento di esecuzione.
8.2 – Innanzi tutto è d’uopo considerare che la adozione del rito camerale del procedimento di sorveglianza, a norma degli artt. 678 e 666 c.p.p., richiamati dall’art. 35 bis, comma 1, prima parte, dell’Ordinamento penitenziario, di per sè sola non comporta alcun ostacolo di ordine formale per la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese processuali a favore di quella vittoriosa.
La legge stabilisce che la decisione del magistrato di sorveglianza assume la forma della ordinanza. E, in astratto, tale tipologia di provvedimento può certamente recare la statuizione di condanna al pagamento delle spese.
8.3 – Conta, semmai, l’analisi contenutistica del procedimento del reclamo “giurisdizionale” per la tutela dei diritti soggettivi del detenuto (già enucleabile nel sostrato normativo dell’articolo 69, comma 6 dell’Ordinamento penitenziario, nella previgente formulazione, siccome integrata dalla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 26 dell’11 febbraio 1999, e ora compiutamente) disciplinato dall’art. 35 bis, in relazione all’art. 68, comma 6, lett. b), dell’Ordinamento penitenziario.
Si tratta di un vero e proprio giudizio, di carattere contenzioso, vertente sull’accertamento, in contraddittorio, del “grave e attuale pregiudizio all’esercizio dei diritti” del detenuto, finalizzato alla adozione del provvedimento riparatorio del giudice (consistente nell’ordine di porre rimedio), e imperniato sul coessenziale antagonismo tra la parte privata reclamante (attrice necessaria ed esclusiva) e la amministrazione penitenziaria (contraddittore istituzionale), potenzialmente resistente.
Epperò, a differenza del procedimento di esecuzione, il quale, in linea di principio, può essere fungibilmente promosso, sullo stesso oggetto, sia dal Pubblico Ministero, sia dal condannato, affatto indifferentemente – l’incidente è “volto a stabilire, nell’interesse della giustizia, il concreto contenuto dell’esecuzione” (Sez. 4, n. 1622 del 22/05/1998 – dep. 04/06/1998, PM in proc. Sciarabba, Rv.
211627) – sicchè non è configurabile alcuna soccombenza, la contraria soluzione si prospetta in relazione al reclamo giurisdizionale in questione.
8.4 – Il rilievo non è, tuttavia, decisivo per accreditare la conclusione del regolamento delle spese inter partes.
Neppure – al di là della considerazione che trattasi di ius superveniens – giova l’accentuata caratterizzazione, in termini di domanda risarcitoria, impressa dal legislatore al reclamo giurisdizionale colla introduzione dell’art. 35 ter dell’Ordinamento penitenziario, ai sensi del D.L. 26 giugno 2014, n. 92, art. 1, convertito nella L. 11 agosto 2014, n. 117.
La disposizione prevede, nei casi stabiliti, la liquidazione di una somma, “o titolo di risarcimento del danno”, per ciascuna giornata di detenzione patita in condizioni “tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva ai sensi della L. 4 agosto 1955, n. 848”, e/o – sempre “a titolo di risarcimento del danno” – la riduzione della pena detentiva espianda in ragione di “un giorno per ogni dieci” giorni della detenzione espiata nelle condizioni de quibus.
La ridetta più recente novella offre, piuttosto, ulteriore argomento a sostegno della esclusione del regolamento inter partes delle spese del procedimento di reclamo giurisdizionale davanti ai giudici di sorveglianza.
Il legislatore ha dettagliatamente disciplinato il procedimento all’art. 35 bis (e all’art. 35 ter, commi 1 e 2) dell’Ordinamento penitenziario.
Ha, quindi, attribuito, in sede civile, al tribunale ordinario (in composizione monocratica) del capoluogo del distretto di residenza dell’attore la competenza relativa alla speciale azione risarcitoria, nei casi di patita custodia cautelare infungibile e di intervenuta espiazione della pena, disciplinando il relativo procedimento contenzioso colle forme dell’art. 737 c.p.c. e ss., sicchè trovano applicazione le disposizioni dell’art. 91 c.p.c. e segg. (Sez. 1 Civ., n. 12021 del 01/07/2004, Rv. 573979; cui adde Sez. 1 Civ., n. 22292 del 21/10/2009, Rv. 609743).
Orbene, la mancata inserzione di alcuna disposizione relativa al regolamento delle spese inter partes nel procedimento di reclamo giurisdizionale davanti ai giudici di sorveglianza e, comunque, l’omesso richiamo degli artt. 91 e 97 c.p.c. – a fronte, peraltro, della attribuzione della medesima azione risarcitoria alla competenza del giudice civile, nei residui casi previsti – appare, per vero, espressione della evidente volontà del legislatore di escludere il regolamento ridetto.
Nè giova alla tesi della ricorrente Avvocatura distrettuale dello Stato il richiamo operato all’arresto, in materia di procedimento incidentale di liquidazione del compenso del custode, sulla opposizione della parte interessata (Sez. 4, n. 2489 del 30/06/1995 – dep. 27/07/1995, Ministero del Tesoro in proc. Pisanelli, Rv.
202335). Il precedente è, oltretutto, inattuale. L’art. 695 c.p.p., che disponeva: “Sulle questioni concernenti le materie previste nel presente titolo spese dei procedimenti penali decide il giudice della esecuzione, che provvede con le forme indicate nell’art. 666 c.p.p.”, è stato abrogato dall’art. 299, comma 1, del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Il procedimento de quo è attualmente regolato dall’articolo 170 del Testo Unico cit., che richiama la L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 29.
Comunque la giurisprudenza di legittimità (con la pronuncia citata dalla Avvocatura erariale) era pervenuta alla conclusione che la fase contenziosa del procedimento in parola dovesse essere disciplinata, in carenza di specifiche disposizioni, dalle “norme … del codice di procedura civile”. E tale non è il caso del reclamo giurisdizionale davanti ai giudici della sorveglianza.
La conclusione raggiunta, infine, si armonizza perfettamente colla tipologia del procedimento di sorveglianza cui, in linea di principio, è affatto estraneo il regolamento delle spese inter partes.
8.5 – Esattamente, pertanto, il giudice a quo ha deliberato: “Nulla per le spese”.
9. – Di conseguenza deve essere disattesa anche la richiesta del detenuto resistente (peraltro genericamente formulata e, comunque, palesemente infondata) di condanna del Ministero ricorrente a titolo di responsabilità aggravata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c..
10. – Il rigetto della impugnazione comporta, infine, la condanna del Ministero ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Al di là alcuni (non recenti) precedenti contrari (Sez. 1, n. 260 del 25/01/1988 – dep. 02/03/1988, Mariani, Rv. 177748; Sez. 4, n. 979 del 09/07/1992 – dep. 14/09/1992, Ministero del Tesoro in proc. Guastella, Rv. 191847; e Sez. 4, n. 131 del 28/01/1993 – dep. 19/03/1993, Ministro del Tesoro in proc. Grasso, Rv. 193385), le Sezioni Unite di questa Corte suprema di cassazione, in tema di procedimento per la riparazione della ingiusta detenzione, hanno fissato il principio di diritto della condanna della Amministrazione dello Stato, ricorrente per cassazione, al pagamento delle spese processuali, nel caso di rigetto o di dichiarazione della inammissibilità della impugnazione (sentenza n. 34559 del 26/06/2002 – dep. 15/10/2002, Min. Tesoro in proc. De Benedictis, Rv. 222265;
cui adde Sez. 3, n. 48484 del 22/10/2003 – dep. 18/12/2003, Min. Eco.
in proc. Salvi, Rv. 228442).
Il principio appare applicabile al caso in esame, nel quale la Pubblica Amministrazione, assume il ruolo di contraddittore necessario e sostanziale del detenuto o dell’internato reclamanti, in relazione al dedotto “grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”, in dipendenza della prospettata “inosservanza da parte dell’amministrazione penitenziaria di disposizioni della … L. 26 luglio 1975, n. 354, e dal relativo regolamento” (articolo 69, comma 1, lettera b), dell’Ordinamento penitenziario).
Epperò il Collegio, uniformandosi al richiamato principio di diritto, fissato dalle Sezioni Unite, da interpretazione estensiva alla disposizione dell’art. 616 c.p.p., comma 1, nel senso che il sintagma “parte privata” è da intendersi comprensivo di tutte le parti processuali diverse dal Pubblico Ministero (unica, vera e propria parte pubblica del processo), alla stregua della giustapposizione sottesa dalla partizione nel Libro I (Soggetti) del codice di rito nei Titoli II (Pubblico ministero), da un canto, e IV (Imputato) e V (Parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato per l’ammenda), dall’altro, colla conseguenza che la Pubblica Amministrazione che interviene nel procedimento, ad instar delle parti private coram iudice (nella specie, contraddicendo la richiesta del detenuto e, quindi, impugnando il provvedimento sfavorevole), deve ritenersi assimilata alle parti private medesime.
11. – Alle considerazioni che precedono, conseguono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente Ministero al pagamento delle spese processuali.
PQM
P.Q.M.
La Corte, a scioglimento della riserva, adottata l’11 novembre 2014, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 27 novembre 2014.