Donna Scarcerata: Magistrati Ammoniti

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Donna Scarcerata: Magistrati Ammoniti

Donna scarcerata con un ritardo di 62 giorni. A nulla rilevano le gravi carenze organizzative: magistrati ammoniti (Violazione art. 13 Cost.).

Martedì 30 Luglio 2013, 19.46

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 9 – 29 luglio 2013, n. 18191
Presidente Rovelli – Relatore Forte

Premesso in fatto

La dr.sa F..G. e il dr. Gu.Pa. , rispettivamente giudice per le indagini preliminari e sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, con sentenza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (da ora: C.S.M.) del 4 dicembre 2012, sono stati dichiarati responsabili dell’illecito disciplinare di cui all’art. 2, lett. g, del D. Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, per “grave violazione di legge determinata da… negligenza inescusabile”, per non avere scarcerato una detenuta, nonostante la decorrenza dei termini di carcerazione preventiva (violazione art. 13 Cost.).

La sezione disciplinare ha invece escluso la sussistenza dell’illecito previsto nell’art. 2, primo comma, lett. a, costituito dalla violazione dell’art. 1 dello stesso decreto legislativo, per esercizio delle funzioni con negligenza, avendo la prima, quale G.I.P., omesso di scarcerare l’imputata S.Y. e il secondo quale P.M. espresso parere contrario all’istanza di libertà della imputata, chiedendo per la stessa gli arresti domiciliari, dopo che erano scaduti i termini di custodia cautelare.

Il C.S.M. ha irrogato a ciascuno dei due magistrati la sanzione dell’ammonimento, affermando che, nella fattispecie, pur essendosi l’infrazione interamente consumata nel vigore del R.D. Lgs. 31 maggio 1946 n. 511 e dovendosi escludere che il trattamento sanzionatorio per la violazione dell’art. 32 bis del D. Lgs. n. 109 del 2006 fosse più favorevole di quello precedente, questo ultimo andava applicato, perché rendeva l’irrogazione della sanzione più difficile. Infatti la normativa del 2006, a differenza della precedente, collega la sussistenza dell’illecito disciplinare al riscontro dei due elementi di cui alla contestazione, quello “oggettivo” della grave violazione di legge e l’altro “soggettivo” della negligenza inescusabile.
In rapporto alla “gravità” della violazione disciplinare, il C.S.M. ha rilevato che l’omissione degli incolpati era “grave”, per avere inciso sul diritto fondamentale (violazione art. 13 Cost.) della libertà personale dell’imputata, della quale ha indebitamente prolungato lo stato di detenzione per sessanta (rectius sessantadue) giorni, così ledendo il diritto costituzionalmente protetto di libertà.
Sul piano soggettivo, il C.S.M. ha rilevato che il requisito della negligenza “inescusabile” incide esso stesso sulla gravità dell’infrazione, perché le carenze soggettive nella condotta omissiva degli incolpati che ha comportato la mancata escarcerazione dell’indagata, erano nella fattispecie macroscopiche e come tali incidevano sulla misura della sanzione da irrogare e non sulla configurazione dell’illecito disciplinare correttamente contestato.
Infatti nel caso la mancata dovuta scarcerazione era effetto di comportamenti omissivi di ambedue gli incolpati che aveva violato il valore più alto garantito dalla Costituzione, quello della libertà personale; pertanto si è escluso che la condotta degli incolpati potesse non qualificarsi come “gravissima”, in ragione dei suoi effetti, e si è tenuto conto a tal fine delle due istanze di libertà personale presentate dall’imputata, entrambe rigettate in violazione della normativa sui termini di custodia cautelare dell’indagata S.Y. (violazione art. 13 Cost.), le cui istanze di liberazione sono state respinte in contrasto con la normativa di legge.
La violazione di un dovere elementare di diligenza da parte dei due incolpati, si è ritenuta inescusabile e in tal senso sono state considerate irrilevanti le deduzioni difensive dei due magistrati, che potevano incidere solo sulla misura della sanzione, a causa della unicità della condotta disciplinare contestata e accertata e tenendo conto della laboriosità dei due, ma non erano esimenti della responsabilità disciplinare. Il C.S.M. ha quindi irrogato la sanzione dell’ammonimento in ragione della unicità dell’episodio contestato e per la laboriosità e capacità di regola evidenziati dai due incolpati nell’esercizio delle funzioni, rilevando che la omessa trascrizione nel registro generale dello stato di detenzione dell’indagata aveva concorso anche essa a dar luogo alla tardiva scarcerazione, per cui ha irrogato ai due incolpati la sanzione edittale minima dell’ammonimento per le ragioni sopra indicate.
Per la cassazione di tale sentenza della sezione disciplinare del C.S.M. del 4 dicembre 2012, la dr.sa F..G. e il dr. Pa..Gu. hanno ciascuno proposto un ricorso di tre motivi, ognuno illustrato da memorie ex art. 378 c.p.c..

Considerato in diritto

1. Devono preliminarmente riunirsi i ricorsi della G. e del Gu. ai sensi dell’art. 335 c.p.c., per essere impugnazioni proposte sepatamente contro la stessa sentenza. Sempre in via preliminare va rilevato che i ricorrenti lamentano che il C.S.M. ha valutato la loro responsabilità disciplinare come condotta imputabile al sistema giudiziario inteso in senso globale, ritenendo “inescusabili” i loro comportamenti omissivi per il carattere macroscopico degli errori e delle conseguenti omissioni contestate. La sezione disciplinare ha quindi ritenuto che le carenze organizzative degli uffici potevano incidere nella fattispecie solo sulla misura della sanzione, essendo palese la violazione di legge, costitutiva da sola dell’infrazione.
Afferma la sentenza del Consiglio superiore che le due istanze di libertà presentate dall’indagata S.Y. imponevano ai magistrati che le avevano valutate e che sono stati incolpati in questa sede, l’esame della posizione processuale dell’imputata detenuta, la cui omessa escarcerazione costituiva di per sé una “negligenza inescusabile”, potendo le giustificazioni addotte dagli incolpati incidere solo sull’entità della sanzione e non sulla sussistenza dell’infrazione disciplinare.
La violazione di legge nell’esercizio delle funzioni degli incolpati e la negligenza nell’omettere la escarcerazione dell’indagata emergevano chiare, anche indipendentemente dalla contestazione della violazione dei doveri di cui all’art. 1 del D. Lgs. n. 109 del 2006.
Per i due incolpati si è riconosciuta la colpa di non avere provveduto alla escarcerazione dell’indagata nei termini di legge, consapevoli che l’assenza di siffatto provvedimento “dovuto” per ben sessantadue giorni, era gravemente lesiva del diritto fondamentale di libertà dell’imputata, garantito dalla Costituzione.
Gli incolpati hanno, ad avviso del C.S.M., omesso il controllo doveroso sulla scadenza dei termini di carcerazione per la indagata, così provocando la proroga illegale della detenzione dopo la scadenza dei termini di questa e violando il diritto fondamentale alla libertà personale di lei.
I due ricorrenti lamentano che, nella fattispecie, è mancato, da parte del C.S.M., l’esame concreto della negligenza, non essendosi considerata la “condotta esigibile in concreto” dai magistrati per la omessa escarcerazione della indagata, da ritenere “diligente” se esaminata in connessione con l’altro requisito richiesto dalla legge per affermare la responsabilità disciplinare degli incolpati, consistente nella inescusabilità della loro condotta, affermando la sentenza impugnata che, nel caso, la negligenza dei magistrati era stata “macroscopica”, al punto da escludere in concreto qualsiasi giustificazione dei loro comportamenti. S
econdo il C.S.M. il rigetto dai magistrati incolpati delle due istanze di escarcerazione dell’indagata, “si può spiegare solo con una mancata lettura degli atti di giudizio e in particolare delle date di carcerazione”.
La sezione disciplinare non ha rilevato la mancanza delle annotazioni sui registri e le carenze organizzative degli uffici di appartenenza, che hanno determinato il rigetto delle istanze di escarcerazione della indagata.
I ricorrenti deducono inoltre, a giustificare la loro condotta, la complessità del procedimento penale con 46 indagati e “consistente in oltre 20 faldoni”, la pluralità degli imputati e le difficoltà connesse al loro reperimento, affermando che, degli arresti dell’imputata, non tempestivamente liberata nel periodo pasquale, il dr. Gu. non aveva avuto notizia, per la tardiva trasmissione degli atti del procedimento al suo ufficio, con errore sui termini di liberazione, condiviso dai difensori, dal G.I.P. e dal Tribunale del riesame, circostanze a cui nessun rilievo aveva dato il C.S.M..
Mancando un fascicolo dell’esecuzione provvisoria che poteva esservi ed era anzi consigliato dalla circolare ministeriale del 20 giugno 1990, i gravosi impegni del dr. Gu. potevano rilevare sulla misura della sanzione, in assenza di una giurisprudenza sicura in materia disciplinare sulla infrazione contestata e circa gli elementi costitutivi della stessa contestazione in rapporto alla “negligenza” e alla “inescusabilità” di essa, non potendo dubitarsi della gravità della violazione di legge,lesiva del diritto di libertà. Nella sentenza disciplinare i due elementi della infrazione della negligenza e della inescusabilità della stessa non risultano ben descritti e definiti e per tali profili è censurata la sentenza disciplinare del C.S.M..

1.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione di legge della sentenza del C.S.M. ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. b, del c.p.p., e dell’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per avere falsamente applicato l’art. 2, comma 1, lett. g, del D.Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, nella parte in cui tipicizza la fattispecie disciplinare nella “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”, leggendola in collegamento con la lettera a di detta norma, che richiama i doveri di diligenza di cui all’art. 1 del citato decreto legislativo.
Affermano i ricorrenti che l’infrazione contestata costituisce illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni e imponeva di conseguenza al C.S.M. la ricostruzione della condotta in concreto esigibile dagli incolpati, per rilevarne la inescusabilità, che è elemento costitutivo della infrazione e della sanzione applicata dell’ammonimento.

Nel ricorso si deduce che la lettura dell’art. 2, lett. g, del D. Lgs. n. 109 del 2006 da parte del C.S.M., ad avviso del quale più grave è la violazione di legge dell’incolpato maggiore è la negligenza dello stesso, è in contrasto con la lettera della norma, che impone invece di tenere distinta la violazione di legge oggettivamente posta in essere dall’incolpato, dalla possibile scusabilità della stessa, costituente esimente dell’illecito disciplinare per ogni caso di violazione disciplinare, qualsiasi sia la sua gravità.
Il collegamento tra carattere “macroscopico” della negligenza e sua inescusabilità si è ritenuto dal C.S.M. ostativo ad ogni giustificazione dell’illecito disciplinare, come si afferma nella sentenza del C.S.M. che sul punto è, ad avviso dei ricorrenti, errata, imponendo comunque la affermazione di responsabilità del magistrato, che invece può, anche in tal caso, giustificare il suo operato in rapporto al contesto organizzativo, funzionale e storico in cui il fatto si è verificato ed è stata tenuta la condotta contestata.

L’incolpato non può rispondere delle violazioni di legge a lui ascritte, se allega cause di giustificazione connesse alla organizzazione dell’ufficio o personali e, nel caso, la sentenza impugnata ha omesso di esaminare in concreto tali cause giustificatrici dedotte dagli incolpati che non avrebbero consentito la esigibilità del comportamento loro addebitato (in tal senso, si citano in ricorso S.U. 13 settembre 2011 n. 18698 e 14 aprile 2011 n. 8488). Le cause di inesigibilità della condotta contestata, pur essendo elencate e riportate nello svolgimento del processo, così come saranno precisate nel terzo motivo di ricorso, non sono state esaminate dalla sezione disciplinare nei motivi della decisione e la sentenza impugnata impedisce l’esercizio della facoltà di eccepire tali cause di giustificazione ai due incolpati, con la impugnazione in questa sede.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 606, comma primo, lett. b, del c.p.p., e dell’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., dell’art. 1 del D. Lgs. n. 109 del 2006, per avere il C.S.M. erroneamente richiamato il dovere di “diligenza” del magistrato di cui a tale ultima norma del decreto legislativo citato.
Il richiamo doveva essere concreto, in ragione della natura personale delle responsabilità del magistrato e, nella sentenza impugnata, è invece astratto e oggettivo, allorché si addebitano al singolo giudice circostanze che dipendono invece dal modo di organizzare il lavoro degli uffici e dalle condizioni in cui esso si svolge, rilevanti in rapporto alla responsabilità civile per tali disfunzioni degli uffici giudiziari e per le connesse azioni risarcitorie dei danneggiati e non per il procedimento disciplinare.
Il mancato esame della cause di inesigibilità della condotta del magistrato nel caso concreto comporta la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della responsabilità disciplinare dei magistrati nella fattispecie, la quale, come regolata e ritenuta dal C.S.M., comporta una responsabilità di natura oggettiva.

1.3. Viene infine dedotta la omessa motivazione della sentenza impugnata sulle concrete circostanze che avrebbero reso esigibile la condotta non violativa della legge da parte degli incolpati, nella fattispecie concreta, in ragione della scusabilità o inescusabilità della condotta degli stessi non valutata concretamente dalla sezione disciplinare.
Afferma il C.S.M. che dette circostanze sono rilevanti nel caso solo in quanto incidenti sulla entità della sanzione applicabile e non per l’affermazione della esistenza dell’infrazione e della conseguente applicabilità della sanzione.

Le circostanze della indiscussa capacità e laboriosità degli incolpati, della unicità della condotta disciplinarmente rilevante e della omessa trascrizione, nel registro generale, dello stato di detenzione dell’indagata, non risultano valutate come esimenti, per cui, per i ricorrenti, non si è giustificata dal C.S.M. la sanzione in concreto irrogata, potendo gli incolpati essere assolti per l’esistenza di cause giustificatrici della loro condotta.
La mancanza di uno scadenzario per i termini di carcerazione ha giustificato, ad avviso dei ricorrenti, l’omessa annotazione della data di escarcerazione dell’imputata per le gravi carenze organizzative dell’Ufficio G.I.P. di Ancona, non addebitabili ai ricorrenti, dato che la Cancelleria non ha mai tenuto un registro delle scadenze delle singole misure cautelari in concreto applicate.

Nel caso, l’ordinanza di custodia cautelare era stata emessa da altro magistrato nel dicembre 2004 e risultava eseguita in data 22 aprile 2005; di tale esecuzione non s’era data comunicazione al G.I.P. che aveva ordinato l’arresto e che aveva respinto il 18 giugno di quello stesso anno l’istanza di revoca della misura cautelare, essendo poi trasferito ad altro ufficio nel settembre successivo.
La mancata annotazione del termine di custodia in carcere sul fascicolo o sui registri non è imputabile ai magistrati che hanno subito la sanzione disciplinare e di tale circostanza nessun conto ha tenuto il C.S.M., che ha collegato soltanto alla mancata lettura degli atti e delle date di c
arcerazione, l’omesso provvedimento di dimissioni dal carcere.
Anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio nessuno ha verificato la scadenza del termine di custodia cautelare, la quale è proseguita per altri sessantadue giorni dopo la sua scadenza legale, in danno dell’imputata poi condannata in primo grado e in attesa dell’appello.
Nessuno dei giudici che ha esaminato il processo si è accorto della scadenza dei termini che precede e la mancanza di un magistrato coordinatore ha facilitato tali omessi interventi dovuti dei giudici, incidenti sul bene fondamentale della vita della libertà dell’indagato.

La mancanza di uno dei tre magistrati dell’Ufficio G.I.P., nell’organico previsto per gli uffici giudiziari di Ancona, aveva determinato un raddoppio del lavoro degli incolpati rilevante, secondo i ricorrenti, per la scusabilità dei loro errori.
Il gravoso lavoro espletato dai ricorrenti, che comportava una attività superiore rispetto a quella da loro pretesa, in un contesto di eccellente professionalità da loro evidenziata, non ha giustificato per la infrazione né la G. , anche se questa in quel periodo visse la vicenda personale assai grave della separazione dal marito, con incidenza sulla condotta nel caso, né il Gu. che, nello stesso periodo, aveva perso il padre deceduto in data 29 giugno 2005.

2. Va preliminarmente osservato che le deduzioni introduttive sulla inescusabilità dell’omesso controllo del termine di custodia cautelare nella fase iniziale del processo e della successiva mancata liberazione dell’imputata non sono dedotte come motivi di ricorso.
Tali circostanze non rilevano quindi neanche per i ricorrenti quali esimenti della loro responsabilità disciplinare erroneamente non valutate dal C.S.M., la cui sentenza afferma che detti fatti incidono sulla misura della sanzione e non sulla esistenza dell’infrazione costituita dalla sicura “grave violazione di legge” che la sezione disciplinare ritiene “determinata da… negligenza inescusabile”. Pur affermando il C.S.M. che nel caso si è avuta una inescusabilità macroscopica del comportamento dei due magistrati incolpati, in rapporto al bene della vita della libertà personale leso dalla condotta di questi ultimi, tale affermazione rileva solo in rapporto al riconoscimento dalla sezione della evidente “colpa” dei giudici per non avere disposto la scarcerazione alla scadenza dei termini della custodia cautelare.
In tale contesto le stesse circostanze richiamate nel terzo motivo di ricorso, quali la provata e indiscussa capacità e laboriosità dei due incolpati o la unicità dell’episodio contestato e accertato, ovvero la omessa trascrizione dello stato di detenzione dell’indagata, sui fascicoli del processo a quest’ultima, sono state ritenute dal C.S.M. attenuanti della responsabilità degli incolpati incidenti solo sulla concreta sanzione da irrogare, che t in rapporto a tali elementi, è stata quella minima dell’ammonimento (art. 5 del D. Lgs. n. 109 del 2006).
Pertanto le circostanze indicate non costituiscono esimenti dell’infrazione disciplinare contestata ed accertata, ma sono state correttamente valutate come fatti incidenti sulla misura della sanzione in concreto applicata, cioè quella minima dell’ammonimento e per il profilo della censura su tale punto, il ricorso è quindi infondato.

2.1. Va anzitutto rilevato che nessuna obbligatoria connessione vi è tra gli illeciti disciplinari di cui alle lettere g ed a dell’art. 2 del D. Lgs. n. 109 del 2006, come chiarito di recente da queste stesse sezioni unite (S.U. 22 aprile 2013 n. 9691 e 11 marzo 2013 n. 5943).
Come esattamente afferma la sentenza disciplinare impugnata, la condotta omissiva degli incolpati dell’infrazione di cui alla lettera g dell’art. 2 del d.Lgs. n. 109 del 2006, è consistita nella mancata scarcerazione dell’indagata alla scadenza dei termini di custodia cautelare.
Tale comportamento ha costituito una “grave violazione di legge” relativamente al mancato rispetto dei termini di custodia cautelare in carcere dell’imputata (artt. 297 e 303 c.p.p.), derivata da palese “negligenza inescusabile”, violativa anche del dovere di “diligenza” dei magistrati nell’esercizio delle funzione di cui all’art. 1, primo comma, del decreto legislativo sugli illeciti disciplinari del 2006.
La omissione ha prodotto alla detenuta un danno ingiusto, perché lesivo del suo diritto alla libertà personale, per essere stata escarcerata con sessantadue giorni di ritardo rispetto alla data di scadenza dei termini di custodia cautelare in carcere (sul tema, cfr. la recente S.U. 3 luglio 2012 n. 11069).

Ogni magistrato è tenuto a vigilare sul permanere delle condizioni cui la legge subordina la privazione della libertà personale dei soggetti da lui indagati, non rilevando, come esimenti di tali condotte violative di un dovere di ufficio, la esistenza di situazioni personali o familiari, salvo la natura eccezionale di queste ultime circostanze che abbia impedito l’ordinario lavoro del magistrato (S.U. 12 gennaio 2011 n. 507).
Nel caso specifico gli incolpati hanno violato il loro dovere di liberare una persona indagata e astretta in carcere, in contrasto con le norme di legge che ne imponevano la liberazione e in violazione dell’art. 2, comma 1, lett. g, del D. Lgs. n. 109 del 2006 (su tale infrazione, tra molte, cfr. S.U. 21 gennaio 2010 n. 968 e le sentenze già citate).

Il primo motivo di ricorso è infondato, essendosi nella fattispecie certamente ed in modo palese violato, dai magistrati ricorrenti in questa sede, il loro dovere di disporre la scarcerazione di una indagata detenuta, con lesione del diritto fondamentale di libertà di questa ultima, trattenuta in carcere oltre i termini di legge.
Sussiste nel caso chiara la condizione di esigibilità della condotta omessa, costituente l’infrazione non giustificabile se non per la esistenza di impedimenti gravissimi, anche in rapporto al diritto alla libertà personale violato in concreto, che impone speciale diligenza nei giudici che hanno il potere di esercitarlo, diligenza totalmente disattesa nella concreta fattispecie.

2.2. Anche il secondo motivo di ricorso, per la parte in cui non è già risolto dal rigetto del primo sulla negligenza dei magistrati incolpati di non avere applicato la norma sui termini della custodia cautelare, così cagionando la lesione del diritto fondamentale alla libertà personale di una imputata detenuta per sessantadue giorni durante i quali era ingiustificata per legge la detenzione, dovendo la indagata essere in stato di libertà, risulta infondato.
Invero nessuna responsabilità “oggettiva” è stata rilevata dal C.S.M. per i magistrati ai quali s’è applicata la sanzione, che sono stati puniti solo per le infrazioni disciplinari colpose, costituite dalla “grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile”, per la quale gli incolpati non hanno disposto o hanno dato parere contrario alla escarcerazione di una imputata, dopo la scadenza dei termini di legge della custodia cautelare.
Gli incolpati hanno contestualmente violato le norme regolatrici del processo penale, che dovevano osservare, e leso il diritto di libertà della donna detenuta, escarcerata ben sessantadue giorni dopo quello in cui doveva essere liberata per legge.
Di fronte al diritto fondamentale di libertà in concreto leso, solo una esimente di grande rilievo poteva giustificare la lesione della situazione soggettiva del diritto alla libertà, tutelato direttamente dalla Costituzione (art.13), la cui lesione non risulta neppure adesso giustificata, non costituendo esimente per gli incolpati della ritardata liberazione la capacità e laboriosità dimostrata da loro nelle altre attività giudiziarie né potendo giustificarli la unicità dell’episodio contestato e accertato.
Non esentano dalla responsabilità dei magistrati che hanno concorso a tenere astretta in carcere una persona che non doveva esservi, l’omessa trascrizione dello stato di detenzione dell’indagata con la mancata annotazione nel registro generale della data di cessazione della misura cautelare dell’indagata, che nel caso ha chiesto espressamente di essere liberata.

Si è avuta una lesione del diritto fondamentale alla libertà della detenuta, per la disattenzione o negligenza gravissima degli incolpati che, investiti della decisione sulle richieste di libertà dell’imputata, non potevano non rilevare che erano scaduti i termini di custodia cautelare di legge. Anche se si tratta di un episodio unico, in un contesto di evidenziata capacità e laboriosità degli incolpati, la gravità della infrazione nella fattispecie emerge chiara dalla prodotta lesione del diritto fondamentale di libertà per l’imputata indebitamente trattenuta in carcere per le omissioni negligenti degli incolpati, per cui non può che rigettarsi il secondo motivo di ricorso per la parte in cui non è assorbito dal rigetto del primo.

2.3. Infine le circostanze di fatto indicate nel terzo motivo di ricorso come esimenti della infrazione disciplinare tipizzata e contestata nella specie al G.I.P. e al P.M. che hanno omesso di liberare la indagata, violando la legge, esattamente si è ritenuto che possono incidere solo sul tipo e sulla misura della pena nella concreta fattispecie, in ragione del diritto fondamentale di libertà concretamente leso con condotta non giustificabile con le mere carenze organizzative dedotte in ricorso, essendo dovere specifico del giudice che deve disporre la liberazione dei detenuti verificare con attenzione particolare la legittimità della detenzione e provvedere alla scarcerazione quando non vi siano i presupposti per proseguire lo stato di arresto.

Il giudice, per i rilevanti poteri che deve esercitare sulla libertà degli indagati, è tenuto ad una particolare attenzione la cui violazione, incidendo su un diritto fondamentale direttamente tutelato dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, se non necessitata da circostanze di fatto che impediscano in modo assoluto la escarcerazione, che nel caso non si sono neppure dedotte, non può in alcun modo essere giustificata.

La disapplicazione della norma che impone la liberazione dell’indagata può essere giustificata solo da un elemento esterno all’illecito, necessario a delimitarne portata e funzione, cioè da una circostanza che rientri nella categoria delle c.d. “condizioni di esigibilità” dell’ottemperanza al precetto normativo, che impone i termini di carcerazione preventiva nella fase cautelare, oltre i quali la lesione del diritto di libertà diviene ingiustificata ed evidenzia la gravità della violazione di legge in rapporto all’inviolabile diritto fondamentale di libertà tutelato dalla carta costituzionale.
Può quindi enunciarsi il seguente principio di diritto: “Anche a garanzia di un trattamento uniforme di situazioni analoghe e della prevedibilità della sanzione, la disapplicazione dal giudice, su conforme parere del P.M., dei termini previsti dalla legge di custodia cautelare, in quanto lesivo del diritto fondamentale di libertà del soggetto trattenuto in carcere oltre i limiti di legge, è “grave” violazione di legge sanzionabile come illecito disciplinare, salvo un’esimente connessa a circostanze di fatto o a provvedimenti che giustifichino la permanenza nella detenzione del soggetto e la sua mancata liberazione, dovendosi attribuire a gravissima negligenza del giudice ogni violazione del diritto di libertà non dovuta a cause eccezionali ovvero già determinate per legge”.
Nulla per le spese, non essendosi costituito in questa sede il Ministero della giustizia per resistere alla impugnazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta.

Non sussiste dunque la violazione dell’art. 13 Cost.

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