Violenza Sessuale: Cassazione Penale 45300/2013

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Violenza Sessuale: Cassazione Penale 45300/2013

Violenza Sessuale: Interessante Sentenza della Suprema Corte di cassazione nell’ambito di un procedimento penale definito con giudizio abbreviato.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 luglio – 11 novembre 2013, n. 45300
Presidente Teresi – Relatore Andronio
Ritenuto in fatto
1. – Con sentenza del 16 novembre 2011 pronunciata all’esito di giudizio abbreviato, il Gip del Tribunale di Frosinone ha condannato l’imputato, anche al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, in relazione ai reati di cui: A) agli artt. 81, secondo comma, 609 bis, primo e secondo comma, n. 1), cod. pen. (violenza sessuale) , perché, con violenza e minaccia e con abuso delle condizioni di inferiorità psichica di M.T. (nata il (omissis) ), figlia con lui convivente, costringeva la stessa a compiere e subire atti sessuali e, in particolare, dopo averne abusato all’età di 13 anni con rapporti sessuali completi a seguito dei quali la stessa rimaneva incinta e partoriva la figlia S. ((omissis) ), nonché tentativi di rapporti anali e, dopo averla costretta, appena appresa la notizia della gravidanza, ad allontanarsi dall’abitazione familiare nella quale aveva vissuto fino a quel momento con la madre gli altri fratelli, continuava a costringere la figlia nel corso di tutta la convivenza durata per 33 anni e fino a (omissis) ad avere rapporti sessuali completi contro la sua volontà, a volte con violenza fisica, a volte con minaccia consistite nel dirle che avrebbe divulgato la fonoregistrazione di precedenti rapporti sessuali e la notizia che S. era in realtà sua figlia e non sua nipote, in particolare a uomini con i quali la donna tentava di intrattenere relazioni affettive, a volte con minaccia consistite nell’impedirle di uscire con altri uomini se prima non avesse avuto con lui rapporti sessuali, in un’occasione puntandole una pistola alla tempia e intimandole di cessare ogni relazione con il fidanzato, con abusi determinati dalla dipendenza economica e psicologica e dalla rassegnata prospettiva della vittima di non poter più vivere una normale vita di relazione; B) all’art. 572 cod. pen., perché, con le condotte descritte al capo precedente, imponendole nel corso degli anni rapporti sessuali completi contro la sua volontà, impedendole di uscire per incontrare persone con cui instaurare relazioni sentimentali, a volte strattonandola, in un’occasione puntandole la pistola alla testa, pedinandola, posizionando la sua macchina davanti a quella di lei per costringerla a non uscire di casa, stampando abusivamente il contenuto della sua corrispondenza telematica, nascondendo un’auto nel registratore di lei, minacciando di ucciderla se avesse incontrato degli uomini, offendendola ripetutamente, impedendole di andare a lavorare, maltrattava la figlia M.T. sottoponendola a continue vessazioni; e, inoltre, nonostante il suo arresto per detenzione illegale di munizioni da guerra e dopo la denuncia dei fatti per i quali è processo, appena in libertà continuava a minacciarla e a molestarla tentando di chiamarla al telefono, recandosi presso il negozio di parrucchiere della sorella, dove lavorava, minacciando anche quest’ultima di far chiudere l’attività; C) all’art. 2 della legge n. 865 del 1967, perché illegalmente deteneva un’arma da guerra della quale venivano rinvenuti 6 proiettili calibro 9 e il foglio di istruzioni per l’uso a seguito di perquisizione.
La Corte d’appello, con sentenza dell’8 gennaio 2013, ha dichiarato, quanto al capo A), estinte per prescrizione le condotte antecedenti al 25 marzo 2001, e ha conseguentemente rideterminato la pena in diminuzione, confermando nel resto le statuizioni di primo grado.
2. – Avverso quest’ultima sentenza l’imputato ha proposto personalmente ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rilevano la manifesta illogicità e la mancanza di motivazione in relazione all’istanza di integrazione probatoria d’ufficio con l’esame di M.S. , circa i rapporti intercorrenti tra la stessa e la di lei madre, M.T. , e tra quest’ultima e l’imputato e circa la circostanza che M.T. godeva di ampia libertà nella frequentazione di uomini non appartenenti al nucleo familiare. La Corte d’appello aveva ritenuto non indispensabile l’integrazione istruttoria ritenendo verosimile che la testimone non potesse dichiarare più di quanto già riferito a sommarie informazioni, in quanto non aveva avuto diretta contezza del dato centrale processuale, ovvero dei rapporti sessuali intercorsi fra la madre dell’imputato, che lei credeva essere semplicemente suo nonno. La stessa Corte d’appello avrebbe omesso di valutare che M.S. aveva definito i rapporti tra imputato persona offesa normali, specificando che i litigi non erano frequenti e rientravano nell’ordinarietà di qualsiasi famiglia ed aveva affermato che M.T. non aveva subito sopraffazioni, ingiurie o violenze di alcun genere.
2.2. – Si denunciano, in secondo luogo, la manifesta illogicità della motivazione e il travisamento della prova in relazione alla violenza e alla minaccia finalizzate all’ottenimento di rapporti sessuali. Il ricorrente, premesso che il susseguirsi di rapporti sessuali tra le parti e la paternità incestuosa di M.S. sono incontestati, sostiene che la Corte d’appello avrebbe confermato la penale responsabilità sul presupposto che M.T. non aveva mai espresso al padre un consenso scriminante, perché costretta con violenza o minaccia e perché in stato di soggezione psicologica. Sarebbero state valorizzate, a tal fine, le affermazioni di M.R. e M.A. , che – secondo il ricorrente – non costituiscono un contributo probatorio, perché riferite a meri sospetti circa le attenzioni sessuali del padre nei confronti della persona offesa. La Corte distrettuale non avrebbe valutato le censure difensive circa l’attendibilità delle dichiarazioni di tali testi, influenzati da rancore nei confronti della pessima figura paterna. Si sarebbero travisate inoltre le risultanze delle fonoregistrazioni, da cui era emerso che l’imputato aveva ammesso di avere preso con forza la figlia e che quest’ultima piangeva mentre subiva un rapporto anale. Il ricorrente propone interpretazioni alternative dell’affermazione da lui fatta, e risultante dalla registrazione, secondo cui aveva preso la figlia con violenza, sostenendo che gli interlocutori intendessero indicare un particolare trasporto e una particolare eccitazione a seguito della quale l’atto sessuale era stato consumato con veemenza. Non si sarebbe considerato, poi, che le dichiarazioni della persona offesa erano vaghe sulla frequenza dei rapporti e su come tale frequenza era mutata nel corso degli anni di convivenza; né vi sarebbe prova che l’imputato avesse registrato i rapporti sessuali allo scopo di ricattare la figlia. Non potrebbe essere considerata minacciosa la richiesta dell’imputato di provare con lui lo stesso trasporto emotivo impiegato dalla persona offesa nei rapporti sessuali con altro soggetto, dovendo questa essere inquadrata nella peculiarità della relazione incestuosa intercorrente fra i due.
2.3. – Si denunciano, in terzo luogo, l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice e la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con specifico riferimento alle condizioni di inferiorità psichica e alle nozioni di abuso e induzione. Si lamenta, in particolare, che la Corte distrettuale avrebbe desunto il vizio del consenso della persona offesa dalla sua situazione di soggezione psicologica, ma nulla avrebbe precisato circa l’induzione mediante abuso delle condizioni di inferiorità. Non si sarebbe tenuto conto, in particolare, del tenore delle conversazioni registrate, nelle quali M.T. acconsente a rapporti sessuali con toni scherzosi e provocatori, invitando il padre ad eseguire l’atto sessuale secondo il suo modo di fare, o
ppure paragonando il suo membro a quello di un altro soggetto. Dalle conversazioni registrate emergerebbe, insomma, un rapporto paritario tra imputato persona offesa, nel quale quest’ultima mostrava autonomia di giudizio e capacità di disporre della propria vita e delle proprie scelte.
2.4. – Con un quarto motivo di gravame, si lamentano l’erronea applicazione dell’art. 572 cod. pen. e la manifesta illogicità della motivazione, sul rilievo della mancanza di prova di presunti tentativi dell’imputato di contattare la figlia tramite altra persona all’utenza telefonica dell’abitazione. Tali tentativi – secondo la prospettazione difensiva – non potevano assurgere ad un comportamento valutabile in termini di maltrattamento e non avevano tono minatorio o molesto. La motivazione fornita Corte d’appello sarebbe insufficiente nella parte in cui questa si basa sulle deposizioni della persona offesa e dei fratelli A. e R. , soggetti questi ultimi non conviventi con l’imputato e la persona offesa e privi di una conoscenza diretta dei fatti. Né si sarebbe sufficientemente apprezzato il fatto che M.S. aveva definito normali i rapporti fra imputato e persona offesa. In punto di diritto, poi, non si sarebbe considerato che, essendovi piena coincidenza fra le contestate condotte di violenza sessuale e maltrattamenti, quest’ultimo reato avrebbe dovuto essere ritenuto assorbito.
2.5. – Con un quinto motivo di doglianza si denunciano la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 2 della legge n. 865 del 1967 (capo C). Si lamenta, in particolare, che la Corte territoriale ha ritenuto condivisibili le conclusioni del giudice di primo grado circa la prova del possesso dell’arma, sebbene la medesima non sia mai stata rinvenuta. Non si sarebbe considerata, sul punto, l’ambiguità del quadro probatorio, costituito dal sequestro delle munizioni, dalle dichiarazioni di M.C. e M.T. , le quali avevano sostenuto di aver appreso della disponibilità dell’arma, dal contenuto di una registrazione, nella quale l’imputato aveva minacciato M.T. di usare l’arma contro di lei.
2.6. – Si denunciano, in sesto luogo, l’erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione in relazione al mancato assorbimento del reato di detenzione di arma nel reato di detenzione di munizioni di cui alla sentenza resa in data 7 marzo 2011 dal Tribunale di Frosinone. Precisa il ricorrente che, per la detenzione delle munizioni, che sono le stesse dalle quali si desunta la detenzione dell’arma, egli è stato già condannato a seguito di processo per direttissima. La sentenza di condanna era stata allegata all’atto d’appello allo scopo di sostenere l’identità dei fatti, sul rilievo che la detenzione contemporanea di un’arma da sparo e delle munizioni costituenti la dotazione della stessa costituisce un’unica ipotesi di reato. La Corte d’appello aveva rigettato tale richiesta, ritenendo non ravvisabile l’unicità del reato, mancando la contemporaneità tra le due condotte.
2.7. – Con un settimo motivo di ricorso, si denunciano – in via subordinata – l’erronea applicazione dell’art. 81 cod. pen. e il vizio della motivazione per il mancato riconoscimento della continuazione tra il reato di cui al capo C) del presente procedimento e reato di detenzione di munizioni di cui alla sentenza di condanna del 7 marzo 2011 del Tribunale di Frosinone. Si lamenta, sul punto, che la Corte territoriale non ha riconosciuto la continuazione senza fornire sul punto alcuna adeguata motivazione.
2.8. – Con l’ottavo motivo di gravame, la sentenza è censurata in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche e all’eccessività della pena, sul rilievo che la stessa non offrirebbe alcuna motivazione sulle circostanze dell’azione e sullo stato personale e psicologico dell’imputato.
3. – All’udienza di discussione davanti a questa Corte, la parte civile, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ha depositato, tramite il difensore, conclusioni scritte con le quali chiede il rigetto del ricorso, e nota spese, chiedendone la distrazione in favore dello Stato.
Considerato in diritto
4. – Il ricorso è fondato limitatamente alla continuazione tra il reato di detenzione di munizioni già giudicato con la sentenza del 7 marzo 2011 del Tribunale di Frosinone e quello di cui al capo C) dell’imputazione.
4.1. – Il primo motivo di doglianza, con cui si contesta la motivazione adottata dalla Corte d’appello in relazione al rigetto della richiesta di integrazione probatoria costituita dalla audizione di M.S. , è inammissibile, perché formulato in modo non sufficientemente specifico e, comunque, diretto ad ottenere da questa Corte una rivalutazione di un profilo di fatto già ampiamente esaminato in primo e secondo grado.
Sul punto, con motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente, il GUP aveva osservato che la teste era già stata sentita in istruttoria ed aveva una conoscenza solo parziale dei fatti. Sulla stessa linea si colloca la Corte d’appello, la quale rileva che M.S. aveva già raccontato nel corso delle indagini preliminari quanto a sua conoscenza circa la vita familiare e i rapporti della madre con l’imputato e non aveva diretta contezza del dato centrale del processo, ovvero dei rapporti sessuali intercorsi fra i due. Quanto al profilo relativo ai maltrattamenti, la stessa M.S. aveva dettagliatamente evidenziato le circostanze nelle quali gli stessi erano avvenuti (puntualmente riportate alla pagina 7 della sentenza impugnata), facendo emergere un quadro di soprusi reiterati, di violenze, di minacce, nonché di gelosie per la relazione sentimentale che la persona offesa stava cercando di intrattenere con un uomo.
4.2. – Il secondo e il terzo motivo di doglianza – che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono alla motivazione della sentenza impugnata circa la violenza sessuale continuata e circa l’abuso della condizione di soggezione psicologica della persona offesa – sono inammissibili, perché diretti ad ottenere da questa Corte una rivalutazione del quadro probatorio attraverso la mera riproposizione di censure già esaminate e motivatamente disattese in primo e secondo grado.
Logiche e coerenti sono, del resto, le argomentazioni adottate dai giudici di merito a sostegno della ritenuta responsabilità penale dell’imputato. Si evidenzia, infatti, che il copioso quadro probatorio – che si inserisce sul dato incontestato del susseguirsi di rapporti sessuali tra le parti per più di trenta anni e della paternità incestuosa di M.S. – è rappresentato: dalle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, le quali risultano precise, specifiche e circostanziate; dai riscontri costituiti dalle dichiarazioni di M.S. circa la situazione familiare e i maltrattamenti ai quali la persona offesa era sottoposta; dalle affermazioni accusatorie di M.R. e M.A. , in parte riferite a dati da questi direttamente appresi in parte riferite a fatti e situazioni conosciuti de relato; dalle fonoregistrazioni delle conversazioni fra imputato e persona offesa, dalle quali emerge la violenza cui i rapporti sessuali erano improntati.
Sotto tale ultimo profilo, le interpretazioni fornite dall’imputato costituiscono delle mere rivisitazioni di quanto già accertato dal GUP e dalla Corte d’appello, risolvendosi in un tentativo di dare all’affermazione da lui fatta circa la violenza usata alla figlia un valenza alternativa manifestamente implausibile.
Quanto allo specifico aspetto dell’abuso della soggezione psicologica della persona offesa, a fronte di rilievi difensivi diretti – come già osservato – a sollecitare a questa Corte una inammissibile rivisitazione del quadro probatorio, i giudici di merito hanno evidenziato che la persona offesa aveva chiaramente riferito di rapporti sessuali che erano pretesi dal padre con violenza e minacce ed aveva raccontato l’episodio in
cui il padre l’aveva trascinata via di casa, incinta e in lacrime, mentre lei chiedeva ripetutamente aiuto alla madre e fratelli senza ottenerlo. Gli stessi giudici hanno altresì attribuito rilievo alle conversazioni telefoniche intercettate e alla lunghezza della convivenza incestuosa fra padre e figlia, dati dai quali hanno correttamente desunto la presenza di uno stato di soggezione psicologica che ha impedito alla persona offesa di abbandonare l’abitazione paterna e di opporre un rifiuto ai rapporti sessuali, alcuni dei quali connotati anche da ulteriori violenze e minacce. A ciò gli stessi giudici aggiungono l’ulteriore elemento degli impedimenti posti dall’imputato alle relazioni sentimentali che la persona offesa cercava di intraprendere con altri soggetti, in modo da realizzare quella segregazione psicologica e affettiva che ha costituito la base della soggezione psicologica di questa.
4.3. – Inammissibile, per le stesse ragioni, è il quarto motivo di doglianza, relativo alla motivazione della sentenza impugnata circa il reato di cui all’art. 572 cod. pen. Anche con tale doglianza, infatti, si tenta di reiterare la critica al discorso giustificativo delle sentenze di primo e secondo grado sulla base di elementi già ampiamente valutati e disattesi dai giudici di merito. Sinteticamente, la sentenza di secondo grado conclude, con iter logico del tutto corretto, che: a) la prova certa dei maltrattamenti emerge dalle dichiarazioni della persona offesa e dei fratelli A. , R. e C. ; b) in particolare, l’imputato, venuto a conoscenza di una relazione sentimentale della persona offesa con un soggetto, le vietava di incontrarlo, la pedinava, la spiava, avendo posizionato un registratore nella sua autovettura; c) la figlia S. aveva analiticamente confermato tale ricostruzione, aggiungendovi significativi particolari (cfr. supra 4.1.); d) i maltrattamenti sono costituiti da comportamenti ripetuti e ulteriori rispetto alle già gravissime violenze sessuale posti in essere.
4.4. – Del tutto generici e, dunque, inammissibili sono i rilievi svolti dal ricorrente con il quinto motivo di ricorso circa la pretesa manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 2 della legge n. 865 del 1967 (capo C).
Deve rilevarsi, del resto, che la Corte d’appello – in totale continuità con quanto già ritenuto dal GUP – ha evidenziato che il possesso dell’arma poteva essere ritenuto provato, pur in assenza del ritrovamento della stessa, in base: al sequestro delle munizioni e al rinvenimento delle istruzioni per l’impiego di un’arma del tipo di quella in contestazione; alle convergenti dichiarazioni di M.T. e M.C. , le quali direttamente dal padre avevano avuto notizia dell’esistenza dell’arma; alla registrazione in atti, da cui si evince che l’imputato minacciava la figlia di ucciderla proprio con una pistola.
4.5. – Infondato è il sesto motivo di ricorso, con cui si denuncia che la Corte d’appello non avrebbe ritenuto assorbito nel reato di detenzione di arma il reato di detenzione di munizioni di cui alla sentenza resa in data 7 marzo 2011 dal Tribunale di Frosinone. Se non vi è dubbio, infatti, che la detenzione contemporanea di un’arma da sparo e delle munizioni costituenti la dotazione della stessa costituisce un’unica ipotesi di reato, deve nondimeno rilevarsi che nella sentenza impugnata si da correttamente atto del fatto che nel caso di specie la contemporaneità della detenzione dell’arma e delle munizioni mancavano, perché risulta provato che l’imputato aveva continuato a detenere l’arma anche ampiamente dopo il sequestro delle munizioni.
4.6. – Fondato è, invece, il settimo motivo di ricorso, con cui si denunciano l’erronea applicazione dell’art. 81 cod. pen. e il vizio della motivazione per il mancato riconoscimento della continuazione tra il reato di cui al capo C) del presente procedimento e reato di detenzione di munizioni di cui alla sentenza di condanna del 7 marzo 2011 del Tribunale di Frosinone.
La Corte d’appello fornisce, infatti, sul punto una motivazione non corretta, perché esclude il riconoscimento della continuazione con il reato oggetto di tale ultima sentenza di condanna sul rilievo che era già stata riconosciuta la continuazione fra il reato sub C) e quello più grave sub A). Così facendo, la stessa Corte non considera che il riconoscimento della continuazione fra i reati oggetto dell’imputazione in un procedimento non impedisce di per sé che sia riconosciuta la continuazione anche con reati oggetto di altro procedimento.
La sentenza deve, pertanto, essere annullata limitatamente a tali profili, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, la quale, facendo corretta applicazione del principio di diritto appena enunciato, valuterà in concreto la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della continuazione tra il reato di detenzione di munizioni già giudicato e quello di cui al capo C) del presente giudizio e procederà alla consequenziale determinazione del trattamento sanzionatorio.
4.7. – Inammissibile, per genericità, è l’ultimo motivo di ricorso, relativo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e all’eccessività della pena. A fronte delle mere indimostrate asserzioni difensive sul punto, la Corte d’appello – ponendosi in continuità con quanto già rilevato in primo grado – evidenzia, con adeguata motivazione, che i fatti sono di estrema gravità, per il rilevante danno provocato alla persona offesa dalla lunghissima convivenza con l’imputato, con la nascita di una bambina prodotto dell’incesto, con limitazioni della libertà fisica e di autodeterminazione, con una continua oppressione realizzata attraverso minacce, pedinamenti e registrazioni.
5. – La sentenza impugnata deve, in conclusione, essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, limitatamente alla continuazione tra il reato di detenzione di munizioni già giudicato e quello di cui al capo C) del presente giudizio e alla consequenziale determinazione del trattamento sanzionatorio. Il ricorso deve essere rigettato nel resto, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, in favore dello Stato, da liquidarsi in Euro 3500,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, limitatamente alla continuazione tra il reato di detenzione di munizioni già giudicato e quello di cui al capo C) del presente giudizio e alla consequenziale determinazione del trattamento sanzionatorio.
Rigetta il ricorso nel resto e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado della parte civile, in favore dello Stato, liquidandole in Euro 3500,00 oltre accessori di legge.

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