La Corte di Cassazione con la sentenza annotata ha stabilito il principio di diritto secondo il quale non è consentita all’imputato la possibilità di definire il processo penale per evasione fiscale con sentenza di patteggiamento se non ha prima assolto il debito tributario.
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Cosa ha stabilito la sentenza della Suprema Corte di cassazione.
2. La difesa eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 2- bis, del d.lgs. n. 74 del 2000 nella parte in cui subordina la presentazione della richiesta di patteggiamento alla integrale estinzione del debito tributario in relazione agli artt. 3, 10, 24, 101, 104, 111, 112 e 113 della Costituzione.
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2.1. La Corte di appello di Firenze ha correttamente respinto l’eccezione di incostituzionalità dell’articolo 13, comma 2-bis, D.Lgs. n. 74 del 2000, vigente all’epoca della pronuncia di primo grado ed ha premesso che nel frattempo l’articolo 13 è stato sostituito dall’articolo 13-bis introdotto dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, continuando la disposizione a prevedere che il patteggiamento ex articolo 444 del codice di procedura penale può essere richiesto, per i reati di cui al decreto legislativo n. 74 del 2000, solo quando il debito tributario sia stato interamente pagato. Nel pervenire alla declaratoria di irrilevanza e di manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale, la Corte del merito ha ritenuto che – pur essendo la norma censurata astrattamente applicabile ad uno soltanto dei reati ascritti al ricorrente, cioè al reato di cui capo D), tanto sul rilievo che detta limitazione era stata introdotta con l’articolo 36-vicies della L. 20 novembre 2011, n. 148 di conversione del D.L. n. 138 del 2011, secondo cui la disposizione si applicava solo “ai fatti successivi alla data di entrata in vigore del presente decreto”, cioè successivi al 17 settembre 2011 – la questione proposta non era comunque rilevante per il presente procedimento perché il ricorrente non aveva mai chiesto la definizione del giudizio a suo carico mediante la procedura di cui all’articolo 444 del codice di procedura penale, né aveva mai manifestato l’intenzione di accedere al rito del patteggiamento.
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Egli, in sede di udienza preliminare, aveva direttamente chiesto di accedere al rito abbreviato senza domandare né in quella sede e neppure durante le indagini preliminari di concordare la pena, anche solo per farsi rigettare detta richiesta sia pure in assenza di prova dell’esistenza di uno dei presupposti, della cui costituzionalità il ricorrente dubita, richiesti dalla legge per accedere al patteggiamento, ossia di aver pagato i debiti tributari; quindi, l’eventuale accoglimento della questione da lui proposta non avrebbe potuto avere, secondo la Corte territoriale, alcuna ripercussione sul giudizio a quo, non risultando che al ricorrente fosse mai stato impedito di usufruire di un rito premiale a cui voleva realmente accedere.
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2.2. In ogni caso, come pure la Corte del merito ha sottolineato, la dedotta questione di illegittimità costituzionale dell’articolo 13, ex comma 2-bis, ed ora articolo 13-bis, comma 1, decreto legislativo n. 74 del 2000 è manifestamente infondata, avendo la Corte costituzionale già respinto una analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2-bis , del d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74 [aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel , lett. m ), del d. I. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, in I. n. 148 del 2011], censurato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui prevede che, per i delitti in materia tributaria sanzionati nel medesimo decreto, le parti possano chiedere l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. (c.d. patteggiamento) solo nel caso di estinzione, mediante pagamento, dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti.
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Il giudice delle leggi ha affermato che la negazione legislativa di tale rito alternativo non vulnera il nucleo del diritto di difesa, giacché la facoltà di chiedere l’applicazione della pena (patteggiamento), peraltro esclusa per un largo numero di reati, non può essere considerata condicío sine qua non per un’efficace tutela della posizione giuridica dell’imputato.
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Inoltre, l’onere patrimoniale imposto non genera alcuna disparità di trattamento perché risulta giustificato da ragioni obiettive, ossia dal generale interesse alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato, anche per il valore sintomatico del ravvedimento del reo, oltre che dallo specifico interesse alla integrale riscossione dei tributi (Corte cost., sentenza n. 95 del 2015). Peraltro, è principio consolidato nella giurisprudenza costituzionale quello secondo il quale la discrezionalità legislativa, in materia di limitazioni di accesso ad un rito alternativo nel processo penale, può essere sindacata soltanto laddove trasmodi nella manifesta irragionevolezza e nell’arbitrio (ex multis, Corte cost., ordinanza n. 455 del 2006), situazione, nella specie, non ricorrente per le ragioni in precedenza esposte. Neppure si rinvengono controindicazioni della disposizione censurata quanto alla pretesa violazione dell’articolo 10 della Costituzione, che il ricorrente vorrebbe attinto in relazione a due principi sanciti dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo: il diritto ad un equo processo (art. 6 parag. 1 della CEDU) ed il diritto a non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso fatto (art. 4 Protocollo n. 7), principi che, all’evidenza, non rilevano, venendo in risalto piuttosto il rispetto agli obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano, posto, tra l’altro, che le violazioni attengono, nel caso in esame, proprio all’evasione dell’IVA e dunque interessano infrazioni ritenute idonee a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea e che i paesi dell’Unione sono chiamati a salvaguardare con disposizioni interne efficaci e dissuasive, sicché il meccanismo diretto a precludere l’accesso al rito alternativo in mancanza del pagamento dei debiti tributari risulta pienamente in linea anche con gli impegni internazionali dello Stato.
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Parimenti alcuna controindicazione è ravvisabile in ordine alla lamentata violazione dell’articolo 113 della Costituzione, Secondo il ricorrente, il meccanismo di limitazione alla facoltà di presentare la richiesta di patteggiamento si porrebbe come una forma surrettizia di “astreintes” volta ad indurre il contribuente-imputato al pagamento, a prima richiesta, di debiti fiscali non definitivamente accertati, inducendo, quindi, l’imputato stesso a rinunciare alla tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, ponendosi, in questo senso, l’articolo 13, comma 2- bis, ratione temporis vigente, in evidente contrasto con l’articolo 113 Cost. Siccome non è più configurabile alcuna pregiudiziale tributaria, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta, con la sole aggiunta degli oneri accessori, cosicché l’imputato conserva integro il diritto di difesa, in ordine all’accertamento dell’imposta evasa e della correlativa obbligazione tributaria, tanto nel giudizio penale, quanto in quello tributario, potendo avvalersi dei normali poteri processuali, anche di carattere probatorio, esercitabili nei giudizi predetti, secondo il rispettivo ordinamento, ma la preclusione, non irragionevole, all’accesso al rito alternativo non comporta affatto una limitazione della tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, che il contribuente può liberamente scegliere di perseguire. Quanto alle ulteriori norme costituzionali (articoli 101, 104, 111 e 112 Cost.) che si considerano intaccate dalla disposizione di legge censurata, il Collegio non rileva alcun aspetto che legittimi il sospetto della violazione, tanto che elementi in tal senso non sono stati affatto dedotti con la sollevata eccezione.
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In conclusione, va soltanto ricordato che neppure le modifiche ex lege n. 158 del 2015 apportano argomenti a sostegno della doglianza prospettata dal ricorrente, avendo il secondo comma dell’art. 13-bis mantenuto in vigore, con i necessari adattamenti, il principio, introdotto con l’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), D.L. n. 138 del 2011, secondo il quale, per tutti i delitti tributari previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 (evasione fiscale), l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale (patteggiamento) può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2, del nuovo testo. 3.
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Anche il secondo motivo non è fondato. Quando, come nel caso di specie, le pene accessorie conseguono ex lege alla statuizione di condanna, è legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice d’appello, delle sanzioni accessorie non applicate da quello di primo grado, ancorché la cognizione della specifica questione non sia stata devoluta con l’impugnazione del pubblico ministero (Sez. 6, n. 31358 del 14/06/2011, Navarria, Rv. 250553), con la conseguenza che non viola il principio della “reformatio in peius” la sentenza del giudice di appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato, applichi le pene accessorie previste, in caso di condanna, dall’articolo 12 d.lgs. n. 74 del 2000 per taluno dei delitti previsti dal predetto decreto.
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Tant’è che, siccome dette sanzioni conseguono di diritto alla condanna, spetta al giudice dell’esecuzione, ove non vi abbia provveduto il giudice di cognizione con la sentenza di condanna, l’applicazione delle pene accessorie del reato tributario, previste dall’art. 12 D.Lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 1, n. 22067 del 01/02/2011, Hu Zhiyu, Rv. 250227). Ne consegue che non è possibile rivendicare alcuna preclusione al riguardo, neanche a seguito della formazione del giudicato.
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4. Il terzo motivo è inammissibile in quanto aspecifico e manifestamente infondato. La Corte di appello ha, sul punto, affermato che anche le statuizioni penali della prima sentenza dovessero essere confermate, avendo il giudice di primo grado tenuto conto della buona condotta dell’imputato concedendogli le attenuanti generiche e una pena-base pari al minimo edittale per il reato di cui al capo d), il più grave dei quattro contestati non essendo ad esso più applicabile l’attenuante di cui all’articolo 2, ultimo comma, D.Lgs. n. 74 del 2000, ed ha stimato corretta la quantificazione dell’aumento per la continuazione in sei mesi di reclusione, venendo unificati in tal modo ben tre reati dello stesso genere, per ognuno dei quali era stato quindi calcolato un aumento pari a due mesi di reclusione, che è apparso equo stante l’ammontare non minimo degli elementi passivi fittizi indicati nelle tre diverse dichiarazioni.
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L’obbligo della motivazione è stato dunque puntualmente osservato, avendo la Corte di appello tenuto conto del tempo dei commessi reati e delle ragioni circa la quantificazione dei disposti aumenti, ed il motivo del ricorso, eludendo del tutto la ratio decidendi, si connota anche per la sua assoluta genericità.
La Corte di cassazione ha dunque escluso la possibilità di definire il procedimento penale per evasione secondo le forma del patteggiamento qualora non sia stato assolto il debito tributario.
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