Cyber razzismo

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Cyber razzismo

Odio razziale e diffamazione Web.

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Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 aprile – 31 luglio 2013, n. 33179
Presidente Teresi – Relatore Rosi
 
Ritenuto in fatto
 
1. Il Tribunale di Roma, quale giudice del riesame, con ordinanza del 5 dicembre 2012 ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in data 9 novembre 2012 nei confronti di S.D., indagato, in concorso con altri, per il reato di cui all’art. 3, c. 3 legge n. 654 del 1975, per avere concorso nella promozione e direzione di un gruppo, caratterizzato da una vocazione ideologica di estrema destra nazionalsocialista, avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione ed alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi, e attraverso la sezione italiana del blog del sito web (omissis), con l’impiego di pseudonimi atti a mascherare la identità dei compartecipi, alla commissione di più delitti di diffusione di idee “on line” e tramite volantinaggio, fondate sulla superiorità della razza bianca, sull’odio razziale ed etnico; e per il reato di cui al medesimo articolo, relativamente alla diffusione di idee fondate sull’odio razziale ed etnico.
2. Avverso tale pronuncia il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del proprio difensore, chiedendo l’annullamento dell’ordinanza per i seguenti motivi: 1) inosservanza od erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche, in quanto risulta violato l’art. 9, c. 2 c.p., in quanto si tratterebbe di reato commesso da cittadino italiano all’estero, per la cui procedibilità è necessaria la richiesta del Ministro della giustizia, atteso che il sito internet è di proprietà statunitense e la legge di quella Nazione consente anche la diffusione di idee razziste in nome della libertà di espressione; 2) Inosservanza ed erronea applicazione anche dell’art. 3 c. 3 della legge contestata, in quanto l’indagato quale coordinatore di un forum o blog si limitava, al pari di un direttore o redattore di una pubblicazione di carta stampata ad organizzate il sito e le sue adesioni, ammettendo gli articoli degli aderenti ed i commenti dei visitatori del sito, su delega del proprietario statunitense, senza che vi fosse alcuna struttura al di fuori del sito internet, dotata dei requisiti di stabilità necessari alla configurazione del reato; sarebbe quindi una forzatura giuridica ritenere che l’attività di un organizzatore di un sito internet con finalità razziste possa coincidere con quella dell’organizzatore dell’associazione a delinquere tipizzata sulla norma; 3) Inosservanza dell’art. 275 c. 2 bis c.p.p., in quanto l’indagato è incensurato e quindi avrebbe diretto eventualmente in caso di condanna al beneficio della sospensione condizionale della pena; 4) Omessa motivazione in ordine alla richiesta di sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari.
3. Con memoria aggiuntiva, la difesa ha insistito sull’eccezione di incompetenza territoriale del reato contestato, atteso che il sito internet operante negli USA è costituita da tempo in territorio estero, mentre solo alcuni dei reati fine sarebbero stati commessi in Italia, e non è presente agli atti la richiesta del Ministro per procedere ex art. 9 c. 2 c.p..
 
Considerato in diritto
 
1. Il ricorso è infondato. È bene innanzitutto ribadire che l’ambito del controllo che la Corte di Cassazione esercita in tema di misure cautelari non riguarda la ricostruzione dei fatti, né le vantazioni, tipiche del giudice di merito, sull’attendibilità delle fonti e la rilevanza e/o concludenza dei dati probatori, né la riconsiderazione delle caratteristiche soggettive delle persone indagate, compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate: tutti questi accertamenti rientrano nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata richiesta l’applicazione della misura cautelare e del tribunale del riesame. Il giudice di legittimità deve invece verificare che l’ordinanza impugnata contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che hanno sorretto la decisione e sia immune da illogicità evidenti: il controllo investe, in sintesi, la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (in tal senso, Sez. 6, n. 3529 dell’1/2/1999, Sabatini, Rv. 212565; Sez. 4, n. 2050 del 24/10/1996, Marseglia, Rv. 206104). In particolare, il controllo di legittimità in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle (misure non può riguardare l’apprezzamento del giudice di merito sulle condizioni soggettive dell’imputato, per cui non sono consentite le censure, che pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate.
2. L’ordinanza oggetto della presente impugnazione è sorretta da logica e corretta argomentazione motivazionale e risponde a tali due requisiti, né sussistono le lamentate errate applicazioni della legge penale e processuale.
3. Deve innanzitutto essere dichiarata l’inammissibilità del primo motivo. Infatti anche nell’ambito del ricorso per cassazione contro provvedimenti “de libertate” vige il principio generale delle impugnazioni, concernente la necessaria connessione tra i motivi originariamente proposti e i motivi nuovi (cfr. Sez. 1, n. 46711 del 14/7/2011, dep. 19/12/2011, Colitti, Rv. 251412) e tra i motivi proposti innanzi al Tribunale del Riesa
me non è stata eccepita la mancanza di giurisdizione dei giudici italiani in relazione al fatto di cui trattasi, questione che sarebbe stata peraltro manifestamente infondata, come desumibile dalle argomentazioni che saranno spese in risposta agli altri motivi.
4. Per quanto attiene al secondo motivo di ricorso, relativo alla configurabilità del reato di cui all’art. 3 comma 3 legge n. 654 del 1975, va ricordato che in esecuzione del vincolo internazionale conseguente alla firma della Convenzione internazionale di New York, sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, il legislatore italiano ha punito come delitto la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, nonché l’incitamento a commettere atti di discriminazione o di provocazione alla violenza nei confronti di persone perché appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale (art. 3, comma 1, lett. a) e b, poi modificato del D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con L. 25 giugno 1993, n. 205, nonché dalla L 24 febbraio 2006, n. 85, art. 13, con la sostituzione delle condotte indicate in quelle di propaganda ed incitamento). È stato affermato (cfr. Sez. 3, n. 37581 del 7/5/2008, dep. 3/10/2008, Mereu, Rv. 241073) che la norma incriminatrice di cui alla ripetuta L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, comma 1, lett. a) limitatamente alle ipotesi della propaganda e della istigazione configura un reato di pura condotta, consistente nella propaganda razzista o nella istigazione a commettere atti di discriminazione razzista, che si perfeziona indipendentemente dalla circostanza che la propaganda o la istigazione siano raccolte dai destinatari. Ed è anche delitto con dolo generico, integrato dalla mera coscienza e volontà di propagandare idee razziste o di istigare alla discriminazione razzista, giacché la norma non richiede nell’agente uno scopo eccedente rispetto all’elemento materiale del reato (propaganda o istigazione di tipo razzista). La propaganda si qualifica come diffusione di messaggi volta a influenzare le idee e i comportamenti dei destinatari, e la stessa è tanto più; efficace quanto più si affida alle nuove tecnologie di comunicazione, quali i social network o i siti web.
5. Il reato associativo di cui all’art. 3 comma 3 della medesima legge, come novellato dalla L. 25 giugno 1993, n. 205, che vieta la partecipazione, la promozione e la direzione di organizzazioni aventi come scopo l’incitamento alla discriminazione e alla violenza di tipo razziale, è stato già esaminato dalla giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto che fosse infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata per contrasto con l’art. 21 Cost., atteso che l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione a una condotta (la discriminazione e la violenza razzista) e quindi realizza un quid pluris rispetto alla mera manifestazione di opinioni personali (cfr. Sez. 5, n. 31655 del 24/1/2001, Ganglio, Rv. 220022). Il principio vale non solo per le organizzazioni razziste, ma anche per quelle che vogliono diffondere idee con intenzionalità razziste, perché la libertà di manifestazione del pensiero e quella di associazione cessa quando travalica in istigazione ed incitamento alla discriminazione e alla violenza di tipo razzista.
6. In relazione alla fattispecie della quale il ricorrente contesta la sussistenza, è di interesse richiamare la posizione della giurisprudenza di legittimità sulla nozione di “comunità virtuale in internet” e sulla sua idoneità strutturale a configurare la fattispecie associativa (a tale proposito si veda Sez.3, n. 8296 del 3/3/2005, Ongari, Rv 231243), dove i requisiti di stabilità e di organizzazione sono stati rinvenuti nella regolamentazione delle comunicazioni sul web, dettata dal responsabile e l’elemento soggettivo della partecipazione all’associazione, nel fatto che gli aderenti al gruppo fossero edotti e condividessero le finalità del gruppo stesso. Infatti, il minimum organizzatolo necessario ad integrare l’associazione a delinquere, nelle diverse sfaccettature analizzate dalla giurisprudenza, si modula in maniera specifica per le realtà associative cd. “in rete”, le quali utilizzano le nuove tecnologie, privilegiando l’uso di blog, chat o virtual communities in internet, non potendosi per tali strutture ricercare quella fisicità di contatti tra i partecipi, tipica dell’associazione a delinquere di tipo, per così dire, classico.
7. Quindi ben può essere affermato il principio che costituisce un’associazione a delinquere finalizzata all’incitamento ed alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi, anche una) struttura quale quella evidenziata agli atti, la quale utilizzava la gestione del blog per tenere i contatti tra gli aderenti, fare proselitismo, anche mediante diffusione di documenti e testi inneggianti al razzismo, programmare azioni dimostrative o violente, raccogliere elargizioni economiche a favore del forum, censire episodi o persone (“traditori” e “delinquenti italiani”, perché avevano operato a favore dell’uguaglianza e dell’integrazione degli immigrati). Pertanto correttamente il tribunale del riesame ha ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, in ragione della sua veste di organizzatore del sito italiano e di moderatore del blog.
8. Sono pertanto infondati i rilievi svolti dalla difesa sul punto della pretesa assimilazione dello S. ad un direttore di giornale, e della sua non responsabilità per i contenuti delle comunicazioni scambiate attraverso il blog, (tra l’altro proprio questa Sezione ha chiarito che il blog non rientra nella definizione di “stampato” previsto dall’art. 1 della L. 47/48 con la sentenza n.23230 del 10/5/2012).
9. D’altra parte, e per completezza, va precisato che nessun rilievo può essere attribuito al fatto che il sito internet-madre sia stato da tempo costituito all’estero ed ivi operi su un server estero. È principio consolidato che nei reati associativi, per determinare la sussistenza della giurisdizione italiana occorre verificare soprattutto il luogo dove si è realizzata, in tutto o in parte, l’operatività della struttura organizzativa, mentre va attribuita importanza secondaria al luogo in cui sono stati realizzati i singoli delitti commessi in attuazione del programma criminoso, a meno che questi, per il numero e la consistenza, rivelino il luogo di operatività del disegno. L’art. 6 c.p. sintetizza l’interesse dello Stato a punire coloro che, in qualche modo, abbiano posto in essere una attività illecita che abbia violato le norme penali, attribuendo così valenza espansiva ad una frazione di attività commessa nel territorio dello Stato anche da taluno che partecipi al sodalizio, in modo che l’applicazione della norma penale si estenda a tutti i compartecipi ed a tutta l’attività criminosa dovunque realizzata (cfr. Sez.6, n. 4378 del 7/11/1997, dep. 25/3/1998, Cao Len Huot, Rv. 210812). Infatti la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attività criminose facenti capo al sodalizio, ossia il luogo ove si sia manifestata l’operatività dell’associazione, piuttosto che il luogo in cui si è radicato il pactum sceleris (Così Sez. 2, n. 22953 del 16/05/2012, dep. 12/6/2012, Rv. 253189 e conforme, tra le t
ante, Sez. 1, n. 45388 del 7/12/2005, dep. 14/12/2005, Rv. 233359) e “quando non sia chiaro il luogo in cui l’associazione opera o abbia operato e non sia possibile far ricorso al luogo fili consumazione dei reati-fine, trovano applicazione i criteri suppletivi dell’art. 9 c.p.p.” (cfr. Sez. 5, n. 2269 del 12/12/2006, dep. 23/1/2007, Rv. 236300).
10. Nel caso di specie, va richiamato un precedente con il quale questa Corte ha affermato che il giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione compiuta mediante l’inserimento nella rete telematica Internet di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all’estero, purché l’offesa sia stata percepita da fruitori che si trovino in Italia (cfr. Sez. 5, n. 4741 del 17 novembre 2000, dep. 27 dicembre 2000, proc. contro ignoti, non mass.). Anche nel caso di specie le attività poste in essere dall’indagato e gli altri, volti ad attività da svolgersi in Italia (fare proselitismo tra gli utenti italiani del sito ed ad istigare atti dimostrativi nel territorio italiano) incardinano senza ombra di dubbio la giurisdizione penale italiana.
11. Per quanto attiene al terzo motivo, l’ampia motivazione dell’ordinanza impugnata in punto di sussistenza delle esigenze cautelari, unitamente alla valutazione della “altamente negativa personalità” dello S. , escludono la possibilità di una prognosi che contenga la pena nei limiti necessari alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, per cui l’ordinanza risulta immune dal lamentato vizio di errata applicazione di legge.
12. Anche il quarto motivo è infondato avendo il Tribunale fornito congrua motivazione circa le ragioni per le quale la custodia cautelare in carcere fosse l’unica misura adeguata in relazione alle riconosciute esigenze cautelari (peraltro nel frattempo la misura cautelare custodiale è stata sostituita dal giudice procedente con quella degli arresti domiciliari).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p..
 
P.Q.M.
 
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.