Ordinanza Accoglimento risarcimento danni detenuti: ordinanza Magistrato di Sorveglianza di Verona con la quale si riconosce la violazione dell’art. 3 della CEDU

Ordinanza Accoglimento risarcimento danni detenuti: ordinanza Magistrato di Sorveglianza di Verona con la quale si riconosce la violazione dell’art. 3 della CEDU

Sovraffollamento carcerario: si deve computare nella misura dello spazio detentivo minimo lo spazio occupato dall’armadio?

Magistrato di Sorveglianza di Verona, ordinanza del 12 novembre 2014 Giudice Omarchi

Osserva

Con il reclamo presentato personalmente in data 19-7-2014 il detenuto (…) ha lamentato di aver subito pregiudizio per essere stato detenuto nell’istituto di pena di Verona dal 18-3-2008 in condizioni contrarie all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata ai sensi della legge 4-8-1955 n° 848), come interpretata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
In particolare, il trattamento disumano e degradante sarebbe consistito nella:

detenzione durante tutta la giornata in una cella con altri 3 detenuti e conseguentemente con spazio vitale inferiore a metri quadrati 4, in presenza di :

  • condizioni di insufficiente luce/ aria naturale per la presenza di grate/retine;
  • condizioni igieniche precarie;
  • dotazione di televisione non adeguata alla vista;
  • insufficiente dimensione del locale passeggi.


Il detenuto ha richiesto una riduzione di pena “risarcitoria” nella misura prevista dall’art. 35 ter co. 1 OP per l’intero periodo nel quale si è verificato il pregiudizio.
Ai sensi dell’art. 35 bis co. 1 OP, del presente procedimento è stato dato avviso all’amministrazione interessata: Direzione della Casa Circondariale di Verona.
Il Direttore della Casa Circondariale di Verona non è comparso ne’ ha inviato memorie, limitandosi a richiedere, nella nota 27-10-2014 in risposta alla richiesta di informazioni dell’Ufficio di Sorveglianza, la valutazione in via preliminare dell’inammissibilità del reclamo in quanto “mancante del presupposto dell’attualità e gravità della lesione ex art. 35 ter OP. In particolare al fine dell’accoglimento del reclamo l’interesse concreto ad agire dell’interessato ex art. 69 comma 6 lettera b) OP deve sussistere tanto al momento del deposito dell’istanza quanto in quello della decisione, pena l’inammissibilità (viene citata l’ordinanza 24-9-2014 Magistrato Sorveglianza Vercelli).” Segnala di aver posto in essere gli interventi correttivi tali da rendere la detenzione più umana.

Motivi della decisione

In via preliminare,
sulla competenza del giudice e l’ammissibilità della domanda.
In relazione alla domanda, va preliminarmente affermata la competenza di questo giudice a conoscere le domande presentate ai sensi dell’35 ter O.P. da soggetti detenuti in relazione all’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un pregiudizio, anche non attuale, all’esercizio dei diritti per detenzione in condizioni inumane e degradanti.
Il rimedio risarcitorio azionato dal detenuto è previsto dall’art. 35 ter OP intitolato “rimedi risarcitori conseguenti alla violazione art. 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”, recentemente introdotto dal decreto legge 26-6-2014 n. 92 convertito con legge n° 117/2014; la norma, al comma 1, disciplina l’ipotesi in cui: “il pregiudizio di quell’art. 69, comma 6, lettera B) consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai 15 giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali… come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo…”.
Il testo normativo in esame è risultato di non facile interpretazione e comunque suscettibile di difformi interpretazioni (come emerso dalle prime pronunce della giurisprudenza di merito dei Magistrati di Sorveglianza e dai primi commenti dottrinali) soprattutto con riguardo al significato del rinvio al pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, lettera b) contenuto nel primo comma.
Tenuto conto dei criteri ermeneutici letterali e di sistema e della ratio della previsione normativa appare condivisibile l’opinione di quanti ritengono il rinvio riferibile esclusivamente alla natura del pregiudizio e non alle sue caratteristiche di attualità e gravità.
Invero il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35 ter OP appare istituto giuridico separato e diverso da quello previsto dall’art. 35 bis OP ( reclamo giurisdizionale) introdotto con decreto legge 23.12.2013 n. 146 convertito con legge n°10/2014 . I due rimedi sono difformi – sul punto gli interpreti concordano – in relazione alle finalità perseguite : l’uno – di natura “inibitoria”- , volto ad impedire il protrarsi in futuro del pregiudizio stesso attraverso l’emanazione da parte del Magistrato di Sorveglianza di ordini – contenenti obbligazioni di facere – all’amministrazione penitenziaria; l’altro – di natura “risarcitoria”- , volto a riparare un danno avvenuto in precedenza e non altrimenti riparabile.
Hanno in comune solo due presupposti: lo stato di detenzione o di internamento dell’istante durante tutto il procedimento e la tipologia di pregiudizio : quello all’esercizio dei diritti soggettivi del detenuto derivante dalla violazione dell’ordinamento penitenziario e del relativo regolamento da parte dell’amministrazione penitenziaria .
Peraltro mentre la fattispecie tutelata dall’art. 35 bis OP, è genericamente individuata in una qualsiasi lesione dei diritti del detenuto previsti dall’ordinamento penitenziario o dal regolamento penitenziario, purché attuale e grave , l’art. 35 ter OP prevede la particolare lesione dei diritti del detenuto derivante da trattamento detentivo disumano e degradante (come interpretata da la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo).
In relazione alla possibilità di tutela , col rimedio risarcitorio il legislatore non ha previsto espressamente, come invece ha fatto per gli altri pregiudizi, ulteriori indicazioni (quali l’attualità e gravità) all’accertamento delle quali è subordinata la tutela riconosciuta dal giudice.
Concordemente tutti gli interpreti hanno ritenuto di escludere che in tale ipotesi il giudice sia chiamato a distinguere tra pregiudizio da condizione detentiva inumana e degradante di tipo grave ( tutelato) e di tipo non grave ( non tutelato ) ritenendo che il pregiudizio da condizione detentiva inumana e degradante sia “grave” per definizione, in quanto ritenuto tale dal legislatore nel momento stesso in cui ha previsto una tutela giurisdizionale anche nel caso che tale lesione si sia concretizzata per un periodo di tempo molto contenuto, inferiore anche a giorni 15.
I contrasti interpretativi vertono quasi esclusivamente sulla rilevanza o meno del requisito dell’attualità del pregiudizio e del momento in cui tale attualità debba essere riscontrata (cioè solo al momento della proposizione del reclamo o anche al momento della decisione del giudice).
È indiscusso, invece, che nei casi di pregiudizio da attuale trattamento detentivo inumano e degradante entrambi i rimedi sono esperibili dal detenuto, a sua discrezione.
A parere di chi scrive il rinvio contenuto nel comma 1 del art. 35 ter OP “al pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, lettera B)…” deve essere inteso esclusivamente con riferimento alla tipologia del pregiudizio (ai diritti del detenuto a causa di un comportamento dell’amministrazione penitenziaria in violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario) e non alle caratteristiche di attualità e gravità, pur indicate nell’art. 69, comma 6, lettera B, riferibili esclusivamente a tutti gli altri possibili pregiudizi ai diritti dei detenuti derivanti da un comportamento dell’amministrazione penitenziaria in violazione delle norme dell’ordinamento e al procedimento processuale previsto per tali rimedi.
Secondo gli interpreti che ravvisano la necessità dell’attualità del pregiudizio ai fini dell’esperibilità del rimedio avanti il Magistrato di Sorveglianza “il rimedio in questione si iscrive nell’ambito dei presupposti che consentono l’attivazione della tutela preventiva disciplinata dagli articoli 35 bis e 69 OP atteso che la clausola di apertura dell’enunciato normativo, è espressa dal periodo “quando il pregiudizio di quell’art. 69, comma 6, lettera B)” non può che rinviare alla medesima cornice giuridica del reclamo giurisdizionale (ordinanza 26-9-2014 Magistrato di Sorveglianza di Alessandria).
Tale assunto non è invece condivisibile per una serie di considerazioni di tipo sistematico e testuale e perché non conforme alla ratio della previsione normativa.
Innanzitutto l’esame del dato normativo dal punto di vista sistematico evidenzia l’esistenza di svariati rimedi per il detenuto, aventi nomen iuris, natura e disciplina diversa.
Il rimedio risarcitorio è previsto da una norma , l’art. 35 ter o.p , distinta e separata dall’art. 35 bis OP) e soprattutto inserita dal legislatore dopo l’art 35 o.p (Diritto di reclamo) “i detenuti e gli internati possono rivolgerle istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa:… 5) al Magistrato di Sorveglianza…” e dopo l’art. 35 bis (reclamo giurisdizionale) che disciplina “il procedimento relativo al reclamo di cui all’art. 69 comma 6 lettere a) e b) OP”.
L’art. 35 ter OP risulta inoltre intitolato diversamente: “rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”.
In relazione a tali norme i commentatori hanno individuato sempre una forma di reclamo: reclamo generico, reclamo giurisdizionale, reclamo risarcitorio.
Tale assunto secondo cui le norme in esame (art. 35, 35 bis, 35 ter OP) disciplinano alcune possibilità di “reclamo” riconosciute in capo al soggetto detenuto o internato è condivisibile solo se il termine “reclamo” è inteso latu sensu ( cioè in senso generico; (si consideri la definizione di reclamo data da Garzanti linguistica: protesta, lamentela con cui si reclama, a voce o per iscritto: presentare un reclamo; fare reclamo; ufficio reclami | (dir.) richiesta di modificare una decisione o un atto ritenuti ingiusti che generalmente si presenta allo stesso organo da cui sono stati adottati).
In realtà l’art. 35 ricomprende ogni qualunque forma di segnalazione (istanza o reclamo, orale o scritto, anche in busta chiusa), per qualunque condizione, presentabile dal detenuto (e per tale procedimento non sono previste particolari formalità); l’art. 35 bis prevede un particolare reclamo per le ipotesi di violazione delle norme riguardanti -genericamente – le condizioni di esercizio del potere disciplinare e – con importante innovazione rispetto alla previsione previgente – lesioni di diritti soggettivi del detenuto, diretto a modificare in futuro comportamenti dell’amministrazione penitenziaria attraverso imposizioni dell’autorità giudiziaria; il rimedio previsto dall’art. 35 ter OP che non contiene alcun riferimento esplicito alla forma del “reclamo” in quanto il legislatore parla di “istanza”… “azione”…”azione” commi 1 e 4 dell’art. 35 ter o.p.. e appare costituire invece una azione di tipo civilistico, di risarcimento danni da comportamento illecito altrui ( art. 2043 C. C. ), azionabile eccezionalmente in sede penale.
Non si tratta quindi semplicemente di modalità diverse di un unico “contesto giuridico”, genericamente identificabile nella facoltà di presentare reclamo al Magistrato di Sorveglianza quanto piuttosto di alcune particolari istanze presentabili al Magistrato di Sorveglianza a condizioni giuridiche diverse e con efficacia diversa. Non solo. In realtà il reclamo costituisce uno strumento giuridico previsto dal legislatore per numerose fattispecie, anche molto diverse tra loro e gli artt. sopra citati non esauriscono la possibilità di “reclamo” del detenuto ( si pensi ai reclami previsti dagli artt.: 14 ter O.P., 18 ter comma 6 O.P., 30 bis comma 3O.P. , 30 ter comma 7 OP, 53 bis comma 2 OP, 69 bis comma 3 OP, oltre alle ulteriori possibilità di “opposizione” o di “impugnazione”).
L’ ordinamento penitenziario prevede, dunque, in capo al soggetto detenuto molteplici strumenti a tutela delle sue posizioni soggettive, qualificandoli genericamente reclami ; le condizioni soggettive tutelate sono peraltro differenti e non diventano omogenee solo perché il mezzo per azionare la pretesa è indicato – quando ciò avviene – in modo uniforme “reclamo”. Nemmeno l’uniformità di disciplina processuale, anche quando questa è prevista, comporta anche un’identità sostanziale come pacificamente dimostrato dai numerosi e diversi istituti giuridici (misure alternative, revoca delle misure alternative, liberazione condizionale, misure di sicurezza, appello su misure di sicurezza eccetera) che sono disciplinati in modo analogo in relazione al rito ma che differiscono in modo sostanziale per quanto riguarda i presupposti e le finalità.
Contrariamente, dunque, a quanto da alcuni ritenuto, il “reclamo” previsto dall’art. 35 ter o.p. è uno strumento giuridico diverso da quelli previsti e disciplinati nei precedenti due articoli .
Si tratta in realtà di uno strumento “eccezionale” in quanto per la prima volta il legislatore ha riconosciuto sussistere in capo al Magistrato di Sorveglianza una competenza a conoscere e decidere in merito ad azioni di danno con conseguenti provvedimenti riparatori/risarcitori. Che tale competenza non sussistesse in capo al Magistrato di Sorveglianza può, alla data attuale, ritenersi acquisito alla luce anche della sentenza n° 4772/2013 della Cassazione emessa in data 15.1.2013 RG 254271 Pres. Giordano Rel. Zampetti).
Per la prima volta, dunque, il legislatore ha previsto testualmente, introducendo una specifica eccezione al principio generale secondo il quale è competenza del giudice civile conoscere tutte le pretese risarcitorie ivi comprese quelle presentate da soggetto detenuto in relazione alle condizioni detentive, che il Magistrato di Sorveglianza emetta una pronuncia su una pretesa di natura civilistica.
Emergono altre differenze tra i due istituti in merito alla disciplina processuale.
Nell’ipotesi di pregiudizio ad un qualsiasi diritto soggettivo del detenuto a seguito di comportamenti dell’amministrazione penitenziaria in violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario previste dall’art. 69 comma 6 e 35 bis OP l’azione civile riparativa, per effetto dei principi generali dell’ordinamento, è esercitabile davanti al giudice civile secondo il rito ordinario mentre, solo per il caso di pregiudizio derivante da detenzione inumana e degradante, il legislatore ha previsto – sempre in relazione alla sola azione civile di riparazione del danno – una doppia disciplina processuale, prevedendo da un lato la possibilità di una azione esercitabile davanti il giudice penale (disciplinando espressamente solo le modalità di presentazione dell’istanza e il possibile contenuto decisorio del provvedimento) e dall’altro un’azione davanti al giudice civile , prevedendo in tale caso espressamente, al co. 3 dell’art. 35 ter OP , anche la forma processuale (il procedimento disciplinato dagli art. 737 e seguenti del codice di procedura civile).
Per quanto riguarda quindi la sola ipotesi della proposizione dell’azione avanti il giudice penale, in assenza di una espressa indicazione del rito applicabile, appare corretto ritenere che, pur costituendo esso un rimedio di natura diversa e rivolto a finalità diversa ( riparativa e non inibitoria come sopra detto), la sua disciplina processuale, in virtù del doppio rinvio contenuto nell’art. 35 ter O.P. nei seguenti termini: “quando il pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, B consiste…” e nel comma 1 dell’art. 35 bis o.p. che disciplina appunto “il procedimento relativo al reclamo di cui all’art. 69 comma 6” sia , per quanto non espressamente disciplinato dall’art. 35 ter o. p, quella contenuta nei commi 1, 4 e 4 bis dell’art. 35 bis OP.
Infatti l’art. 35 bis OP disciplina nel comma 1 il procedimento per la presentazione e la trattazione dei reclami dei detenuti o internati (attinenti: A) Le condizioni di esercizio del potere disciplinare… e B) il inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dall’legge o dal regolamento dalle quali derivi al detenuto o all’internato un attuale grave pregiudizio all’esercizio dei diritti), nel comma 4 e 4 bis il regime delle impugnazioni avverso la decisione di primo grado mentre in tutti gli altri commi disciplina il contenuto del provvedimento del giudice e eventuali provvedimenti conseguenti nei casi in cui il reclamo abbia riguardato genericamente l’inosservanza da parte dell’amministrazione con conseguente grave ed attuale pregiudizio all’esercizio dei diritti del detenuto o dell’internato.
Dunque al rimedio risarcitorio dell’ art. 35 ter OP non è certamente applicabile quanto previsto dai commi 2), 3), 5) 6) 7) 8) dell’art. 35 bis O.P.; è quindi legittimo affermare che il contenuto di tale norma non è applicabile, se non in minima parte ed esclusivamente per quanto attiene: alla presentazione del reclamo e al sistema delle impugnazioni avverso la decisione di primo grado, al “reclamo” del tipo rimedio risarcitorio di cui all’ art. 35 ter O.P..
L’art. 35 bis O.P. ( reclamo giurisdizionale) non contiene, dunque, la disciplina processuale per ogni tipo di reclamo presentato dai detenuti; come sopra già evidenziato la disciplina processuale varia a seconda dei tipi di reclami; l’art. 35 bis in realtà regolamenta principalmente il procedimento relativo al reclamo di cui all’art. 69 comma 6 O.P., con riferimento all’ipotesi prevista dalla lettera B) .
E ancora.
L’art. 35 ter OP richiama il “pregiudizio di cui all’art. 69 co. 6 lettera B OP” senza aggettivazioni; il co. 1 ultimo periodo dell’art. 35 ter OP parla di “richiedente che ha subito il pregiudizio” (e non di richiedente che subisce il pregiudizio; il co. 2 ultimo periodo dell’art. 35 ter OP prevede “… un periodo di detenzione espiato… inferiore a giorni 15…”; l’art. 35 bis co. 3 OP ( norma che, stante il suo contenuto, non è applicabile al procedimento per il rimedio risarcitorio) espressamente prevede la necessità, al momento della pronuncia decisoria del tipo “ordine all’amministrazione di porre rimedio”, dell’accertamento della “sussistenza e attualità del pregiudizio”.
Il richiamo contenuto nel comma 1 dell’art. 35 ter O.P. all’art. 69, co. 6 O.P. ha quindi sicuramente una duplice finalità: da un lato indica il tipo di pregiudizio per il quale il nuovo rimedio è azionabile e da altro lato individua la disciplina processuale del relativo procedimento davanti al Magistrato di Sorveglianza.
In assenza di tale richiamo, infatti, l’unico rito applicabile sarebbe stato quello dell’art. 35 O.P. ( cioè del tutto sprovvisto di formalità e non giurisdizionalizzato) in quanto il rito camerale disciplinato dall’art. 678 c.p.p. non è applicabile ai procedimenti in esame per mancata espressa previsione.
Inoltre, la ratio della norma (e quindi la finalità perseguita dal legislatore) è pacificamente quella di prevedere per i soggetti detenuti uno strumento effettivo, efficace e immediato di tutela contro il grave pregiudizio da condizione detentiva inumane degradante.
L’inserimento nell’ O.P. dell’art. 35 ter costituisce, infatti, la risposta ai pressanti inviti contenuti nelle pronunce della Corte Europea che in più occasioni si era espressa ritenendo necessario garantire strumenti effettivi a tutela del detenuto che si lamentava di uno stato detentivo in condizioni inumane e degradanti, rivolti non solo a inibire la prosecuzione di tale trattamento ma soprattutto a compensare e riparare per la violazione già subita (in particolare in tal senso la sentenza Torregiani c/Italia che ha disposto anche il congelamento dei molteplici ricorsi pendenti innanzi alla Cedu per il termine di un anno per consentire all’Italia l’emanazione dei relativi provvedimenti normativi).
La previsione della necessità dell’attualità del pregiudizio quale condizione per l’esperibilità della tutela giurisdizionale davanti al Magistrato di Sorveglianza pare soluzione non conforme alla ratio e alle finalità perseguite dal legislatore.
Infatti se fosse richiesta in ogni caso e fino alla decisione del giudice l’attualità del pregiudizio in capo al reclamante si giungerebbe, stante i tempi previsti per il procedimento stesso, alla pratica impossibilità di tutela in relazione ai pregiudizi protrattisi per periodi non significativi o comunque di durata inferiore o di poco superiore a giorni 15, per i quali evidentemente, tenuto conto dei tempi processuali per fissazione udienza, notifica decreto di citazione, istruttoria, non si potrebbe mai giungere ad una pronuncia di merito, negando così giustizia nei casi, certamente meno gravi ma comunque degni di tutela per espressa previsione legislativa , in cui la condizione detentiva inumana e degradante è avvenuta per periodi brevi.
Inoltre va rilevato che la condizione detentiva rilevante ai sensi dell’art. 35 ter OP dipende in via esclusiva da atti e comportamenti dell’Amministrazione Penitenziaria e che quindi la situazione di fatto è sottoposta, sulla base di scelte unicamente riferibili ad una parte (l’ Amministrazione Penitenziaria appunto) a modifiche nel corso del procedimento stesso. La pretesa risarcitoria del detenuto ( relativa a situazione certamente pregressa ) risulterebbe quindi condizionata ( cioè inibita ) dalla modifica della condizione di fatto eventualmente disposta dall’amministrazione penitenziaria, anche nell’imminenza della decisione del giudice, privando quindi il detenuto della possibilità di ottenere un provvedimento riparatorio efficace, immediato ed efficace in relazione ad una situazione passata cioè già pienamente consumata. In tali casi infatti il Magistrato di Sorveglianza, riscontrando che l’attualità del pregiudizio inizialmente sussistente è successivamente venuta meno, dovrebbe dichiarare non luogo a provvedere con la necessità conseguente per il detenuto di avviare un nuovo procedimento avanti un altro giudice per le medesime circostanze .
Inoltre tenuto conto della disposta ripartizione della competenza a decidere sui reclami ex art. 35 ter O.P tra il Magistrato di Sorveglianza e il giudice civile , il requisito dell’attualità del pregiudizio finirebbe per diventare non solo condizione di ammissibilità del reclamo ma anche presupposto per la competenza del giudice. In realtà per il principio della perpetuatio jurisdizionis secondo cui i fatti successivi non producono effetto sulla competenza del giudice il giudice è da ritenersi sempre competente se lo era al momento della presentazione della richiesta o istanza. Il mutamento della situazione di fatto potrebbe dunque giustificare non una pronuncia di incompetenza ma solo il rigetto della richiesta o la dichiarazione di non luogo a deliberare. In tali casi peraltro, pur permanendo immutato l’interesse del detenuto ad una pronuncia del giudice, non vi sarebbe alcun giudice competente a decidere sull’azione risarcitoria intrapresa dal detenuto in quanto la competenza del Magistrato di Sorveglianza sarebbe esclusa e quella del giudice civile non sarebbe ancora operante. L’art. 35 ter comma 3 OP prevede infatti la competenza del giudice civile solo quando la persona abbia subito il pregiudizio di cui al comma 1 in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare o quando abbia terminato di espiare la pena detentiva in carcere.
Rimarrebbero quindi esclusi da ogni forma di tutela i casi più frequenti e rilevanti cioè quelli dei condannati detenuti ancora in espiazione della pena a cui si riferisce la detenzione inumana e degradante ma per i quali tale condizione detentiva ( inumana e degradante ) sia cessata.
Tali soggetti inoltre non solo sarebbero privi della possibilità di agire in giudizio davanti al giudice civile ( proprio perché ancora detenuti ) ma verrebbero anche privati della possibilità di ottenere il rimedio risarcitorio in forma specifica previsto come principale e prioritario dallo stesso legislatore ma concedibile SOLO dal Magistrato di Sorveglianza . Quindi il nuovo e sicuramente principale e prioritario rimedio risarcitorio – il risarcimento in forma specifica – , introdotto dal legislatore per ovviare ai giusti rilievi della Corte Europea, costituito dalla detrazione di pena residua ( 1 giorno ogni 10 di detenzione inumana e degradante) sarebbe precluso proprio ai condannati che hanno un residuo pena da espiare cioè ai soggetti a tutela dei quali il legislatore ha normato.
La norma in esame va, dunque, interpretata scegliendo tra le due soluzioni proposte quella che consente il miglior raggiungimento della finalità perseguite dal legislatore che appare indiscutibilmente quella di garantire al detenuto anche, e soprattutto, un rimedio risarcitorio in forma specifica cioè la riduzione della pena detentiva residua , per effetto del superamento del presupposto che 1 giorno di detenzione equivale ad 1 giorno di espiazione pena attraverso il diverso criterio secondo il quale 10 giorni di detenzione in condizioni disumane degradanti equivalgono a 11 giorni di espiazione pena; il rimedio risarcitorio per equivalente (l’unico peraltro consentito al giudice civile ex art. 35 ter co. 3 OP) è del resto previsto solo in termini sussidiari, essendo limitato alle ipotesi di incapienza della pena residua da ridurre o di detenzione in condizioni inumane degradanti accertate in relazione a periodi detentivi inferiori a giorni 15.
Inoltre riconoscere una tutela immediata ed efficace solo nei casi di accertata sussistenza di un pregiudizio attuale non solo non tiene conto delle intenzioni del legislatore ( tra cui anche quella di contribuire alla riduzione stessa del sovraffollamento carcerario) ne’ delle indicazioni contenute nelle sentenze Cedu ma non considera nemmeno i mutamenti intervenuti nel periodo più recente ( frutto peraltro sempre della “pressione” esercitata sull’Italia dalla Corte Europea ) nella condizione carceraria italiana: significativa riduzione della popolazione carceraria per effetto di interventi normativi diversi e modifica del regime detentivo ordinario attraverso la previsione di un “sistema di celle aperte” per almeno 8 ore al giorno e di una “sorveglianza dinamica” da parte della polizia penitenziaria. Per effetto di tali mutamenti è legittimo prevedere la significativa riduzione in futuro o finanche – come da tutti si auspica – l’esclusione di ulteriori casi di detenzione inumana e degradante. I soggetti che sono stati detenuti in condizioni detentive inumane e degradanti e che hanno ancora una pena da espiare ( cioè i soggetti più interessati al rimedio risarcitorio introdotto dall’ art. 35 ter OP e quelli per i quali tali rimedi risarcitori sono stati introdotti) sarebbero – nel momento stesso in cui il rimedio è stato previsto normativamente – già di fatto esclusi proprio dalla principale tutela prevista, quella della riparazione con la riduzione della pena residua (ritenendosi assolutamente prioritaria la riparazione in forma specifica rispetto a quella per equivalente) in quanto l’emanazione dell’art. 35 O.P. costituisce l’ultimo , in ordine di tempo, dei rimedi attuati pur essendo, per il tipo di tutela prevista, il principale. E allora viene da domandarsi come mai il legislatore abbia ritenuto di prevedere, con criteri di assoluta novità, tale strumento se poi al lato pratico sapeva che non sarebbe stato mai di fatto applicato.
Inoltre non viene tenuta in adeguata considerazione anche la circostanza della natura stessa del pregiudizio da condizione detentiva inumana e degradante che appare transitorio, ripetibile e variabile in quanto condizionato dal luogo di detenzione (per definizione modificabile a discrezione dell’amministrazione penitenziaria) e dalle modifiche del regime detentivo (pure modificabile ad opera delle circolari dell’amministrazione penitenziaria e degli ordini di servizio dei direttori degli istituti di pena), pure questi suscettibili di rapida modifica.

L’esame della condizione detentiva effettuata in relazione a posizioni giuridiche soggettive di altri detenuti ha infatti evidenziato che i periodi di detenzione inumana e degradante spesso si sono alternati a periodi detentivi in condizioni non lesive, sulla base di circostanze che non dipendono in alcun modo dal detenuto ma che sono esclusivamente riconducibili all’amministrazione penitenziaria. Sul punto si ritiene di condividere quanto espresso a pagina 4 e 5 nell’ordinanza 26-9-2014 n° 20149346 del Magistrato di Sorveglianza di Bologna.
Costituiscono quindi presupposto per l’esperibilità del reclamo ex art. 35 ter OP avanti il Magistrato di Sorveglianza solo l’attualità dello stato di detenzione del reclamante, la condizione di detenuto condannato definitivo e la prospettazione delle circostanze di fatto dalle quali è desumibile l’esistenza del pregiudizio da condizione detentiva inumana e degradante.
Il rimedio risarcitorio non è quindi azionabile davanti al Magistrato di Sorveglianza da parte di soggetti non più detenuti, da soggetti in custodia cautelare (per i quali non sussiste per definizione “una pena detentiva ancora da espiare”), da soggetti detenuti per un titolo diverso da quello al quale riferibile la detenzione in condizioni inumane e degradante.
Parimenti è da ritenersi inammissibile il rimedio azionato senza indicazione delle concrete circostanze di fatto dall’esistenza delle quali è ricavabile il pregiudizio, in ossequio ai principi generali dell’ordinamento: da un lato il principio dell’onere di allegazione gravante sul condannato richiedente una misura prevista dall’ordinamento penitenziario secondo il rito camerale disciplinato dall’art. 666 CPP e dall’altro il principio di non contestazione (codificato dall’art. 115 c.p.c.) secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pm nonché “i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”. Nel caso in esame, infatti, pur trattandosi di procedimento di natura penale relativo l’esecuzione della sanzione detentiva, il rimedio previsto è di natura risarcitoria con liquidazione di un eventuale somma a carico dello Stato e a favore del privato con conseguente necessità che l’organo statale (Ministero della Giustizia) chiamato in giudizio a rivestire il ruolo di parte sia posto nelle condizioni di difendersi su fatti specificamente dedotti e di contestarli in modo puntuale.
Non si ritiene invece di dover approfondire, in questa sede, la natura giuridica del rimedio risarcitorio.
Per quanto qui rileva, infatti, pare sufficiente evidenziare che si tratta di una azione di tipo civilistico rivolta a ottenere una riparazione per un danno ingiusto subito da soggetto detenuto in conseguenza di una condizione oggettiva ( la detenzione in condizioni inumane e degradanti) e prescindendo da ogni altro elemento normalmente rilevante delle ipotesi di risarcimento per fatto illecito altrui. Il legislatore, infatti, ha valorizzato il principio fondamentale del neminem laedere sicuramente valevole anche per la pubblica amministrazione che si occupa di garantire l’esecuzione della sanzione penale degli istituti di pena ma introducendo tale rimedio ha ritenuto di prescindere sia dall’accertamento in concreto dell’esistenza del danno e della sua quantificazione che dalla componente soggettiva del comportamento lesivo (dolo o colpa) del funzionario e/o dipendente dello stato (ai sensi del art. 28 della costituzione), evidentemente privilegiando la necessità di garantire i soggetti detenuti , attesa la pressante aspettativa europea, tramite uno rimedio rapido, facile, semplificato nei presupposti e nel procedimento per tutti i casi nei quali è configurabile, in modo ormai pacifico e acclarato, un’inaccettabile lesione dei diritti soggettivi del detenuto.
Il legislatore italiano ha evidentemente riconosciuto e condiviso quanto indicato dal CTP e dalla Cedu: la detenzione in uno spazio inferiore ai 3 mq costituisce sempre un’ingiusta lesione di un diritto soggettivo non negoziabile, a prescindere dalla percezione soggettiva del danneggiato, dal quantum del danno e da eventuali circostanze “giustificative” per l’amministrazione pubblica.
Nella nuova disciplina normativa il provvedimento decisorio del giudice pare “equiparabile” alla condanna dell’imputato al risarcimento del danno subito dalla parte civile con riconoscimento di una provvisionale ; peraltro non in misura determinata dal giudice ma predeterminata dal legislatore, salva la possibilità della parte di agire in sede diversa per il completo ristoro dei propri diritti. Pare infatti non discutibile che all’interessato sia riconosciuta anche la possibilità di non azionare il rimedio risarcitorio ( per le ragioni più varie ) e quella di azionare, eventualmente, l’azione risarcitoria ordinaria ( volta a risarcire in tal caso ogni e qualsiasi danno derivato e quindi anche in termini maggiori di quelli riconosciuti dall’art. 35 ter O.P..
Si tratta quindi di un “rimedio risarcitorio” che si discosta in modo rilevante anche dalle ipotesi note di responsabilità della pubblica amministrazione per comportamenti dei propri funzionari e che si aggiunge a quelli ordinari e quindi anche alla più generica azione di riparazione del danno prevista dall’art. 2043 c.c..
Anche le riscontrate differenze con l’azione ordinaria di risarcimento confermano quindi la natura autonoma ed eccezionale del nuovo istituto giuridico.
Nel merito.
Il procedimento ex art. 35 ter OP
In ordine alla domanda di accertamento della condizione detentiva inumana e degradante, prima di passare all’esame concreto della condizione detentiva accertata, appaiono indispensabili alcune precisazioni in ordine al metodo di calcolo delle dimensioni della camera detentiva , tenendo in considerazione quanto previsto dalla normativa nazionale, in particolare l’art. 6 O.P.: (locali di soggiorno e di pernottamento.) “I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I detti locali devono essere tenuti in buono stato di conservazione di pulizia. I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti.… Ciascun detenuto è internato dispone di adeguato corredo per il proprio letto”, dall’art. 6 Reg. O.P (condizioni igieniche e di illuminazione dei locali) e da quella internazionale. Sul punto si ricorda la seconda parte della raccomandazione Rec(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee (adottata l’11 gennaio 2006, nel corso della 952a riunione dei Delegati dei Ministri) , dedicata alle condizioni di detenzione. Nei suoi passaggi pertinenti al caso di specie essa è così formulata:
« 18.1 I locali di detenzione e, in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte, devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata, e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche, in particolare per quanto riguarda la superficie, la cubatura d’aria, l’illuminazione, il riscaldamento e l’aerazione.
18.2 Nei locali in cui i detenuti devono vivere, lavorare o riunirsi: a. le finestre devono essere sufficientemente ampie affinché i detenuti possano leggere e lavorare alla luce naturale in condizioni normali e per permettere l’apporto di aria fresca, a meno che esista un sistema di climatizzazione appropriato; b. la luce artificiale deve essere conforme alle norme tecniche riconosciute in materia; d. un sistema d’allarme deve permettere ai detenuti di contattare immediatamente il personale.
In merito al computo del locale bagno e degli arredi.
Le pronunce della CEDU non forniscono elementi chiari ed univoci in ordine al computo anche dello spazio riservato al locale bagno, eventualmente annesso alla camera detentiva, e al computo degli arredi fissi e/o mobili presenti nel locale.
Esaminando, peraltro, le note informative presenti sul sito Internet della Corte europea dei diritti dell’uomo ( www.echr.coe.int ) e la documentazione prodotta in giudizio da parte di alcuni detenuti in relazione al ricorso già presentato alla Cedu si rileva che la Corte, nel fornire le “informazioni complementari per i ricorrenti che introducono un ricorso contro l’Italia” al punto 3: “casi riguardanti le condizioni di detenzione (sovraffollamento) tipo Torreggiani e altri c.Italia (numeri 43.517/09, 46.882/09, 55.400/zero 9,57 1875/zero 9,61 mila 535/09, 35.315/10 e 37.818/10, 8-1-2013) l’elenco delle informazioni e dei documenti richiesti prevede l’indicazione della : “superficie lorda della cella, arredi compresi ma con esclusione del bagno, n° di occupanti, certificato di detenzione con l’elenco dei movimenti definitivi”.
In relazione ad un caso di ricorso già presentato alla Corte la nota di risposta ( acquisita in atti) inviata dalla Corte al ricorrente contiene l’invito a fornire tutte le informazioni pertinenti al fine di consentire l’esame da parte della Corte del ricorso; in particolare “l’invito a specificare le dimensioni globali della cella comprensive del mobilio ed escludente il bagno, nonché in n° degli occupanti”.
Circa l’esclusione del locale bagno dal computo della camera detentiva, quindi, sorreggono le indicazioni fornite dalla stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo e la giurisprudenza nazionale che in modo pressoché univoco ha ritenuto di distinguere lo spazio rivolto alle attività e al riposo da quello destinato all’igiene personale.
In relazione allo spazio così ricavato appare opportuna un’ulteriore preliminare precisazione.
Pur risultando pressoché ovvio, lo spazio in esame è solo quello calpestabile cioè quello lasciato libero dalle pareti che delimitano i locali. Il concetto di “superficie calpestabile” può essere infatti individuato sulla base della disciplina normativa contenuta nella legge 392/1978 “Legge Equo Canone”. La superficie calpestabile coincide con la superficie della pavimentazione ed è quindi depurata dallo spessore di eventuali colini perimetrali e dagli ingombri di eventuali pilastri, non potendo dette superfici essere godute dall’utilizzatore (Cassazione 15-4-1998 n° 3802). Vedasi sul punto la perizia Geom. ——– in data 10-11-2014 di cui si dirà oltre.
Molto più controversa, invece, appare la considerazione delle suppellettili ed altri oggetti presenti nella camera detentiva. Si fa riferimento essenzialmente agli armadi, letti, tavoli, sedie, mobili pensili.
In relazione a tali oggetti, come sopra esposto, la CEDU sembra dare indicazioni nel senso di computare anche lo spazio occupato da tali arredi ( cioè di non scomputare il relativo ingombro); la Cassazione, d’altra parte, come già richiamato nell’ordinanza 14-10-2014 del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, con sentenza 5728/2014 ha riconosciuto corretta la scelta di non considerare (cioè scomputare dalla superficie lorda della cella) lo spazio occupato dall’arredo fisso costituito dall’armadio.
Quindi in relazione a tali diversi oggetti pare opportuno tenere in considerazione, escludendoli, quegli spazi che sono occupati in modo fisso e “a terra” o comunque con ridotta distanza da terra, da oggetti suscettibili di una unica ed esclusiva utilizzazione quali gli armadi ( pensili appesi a distanza ravvicinata da terra e non pensili).
Il letto, la tavola, le sedie appaiono invece oggetti utilizzabili per varie e molteplici finalità da parte del detenuto e quindi destinati non a ridurre lo spazio a disposizione del detenuto ma a consentirne il pieno utilizzo; analogamente per gli armadi/stipetti pensili ( ad alta distanza da terra ) il cui ingombro appare estremamente contenuto proprio perché è limitato solo allo spazio aereo.
Evidentemente la considerazione di tali oggetti va fatta nella misura adeguata al numero dei soggetti effettivamente presenti senza dare rilievo ad eventuali oggetti presenti nella cella su richiesta esplicita delle detenuto e con il consenso degli altri occupanti (risulta infatti frequente la richiesta da parte di detenuti di fornitura di ulteriori armadi/stipetti per soddisfare particolari esigenze di conservazione/deposito di oggetti personali).
Parimenti non devono essere considerati tutti gli altri oggetti presenti nella camera detentiva che siano stati introdotti legittimamente dal detenuto nell’esercizio di una scelta discrezionale (frequente è infatti l’ingombro costituito dai beni acquistati al sopravvitto quali bottiglie d’acqua o scatole di varia forma utilizzate per la raccolta ordinata degli oggetti).
Tanto premesso, nel caso in esame sono state sottoposte ad accertamento d’ufficio, le condizioni detentive segnalate in modo specifico dal detenuto e relative allo spazio effettivamente disponibile pro capite e alle altre condizioni detentive.
In relazione alle dimensioni delle camere detentive sono state acquisite due note della Direzione della Casa Circondariale di Verona: la prima in data 6-7-2013 prot. n° 17.787 (nella quale si comunicava che ogni camera detentiva misurava metri quadrati 12,50 (metri quadrati 17,50 circa comprensivi dell’annesso vano bagno) e la seconda in data 18-10-2014 prot. n° 26.169 (nella quale si comunicava che lo spazio abitabile della camera di pernottamento… è di metri quadrati 13,75 comprensiva del mobilio ed escluso il vano bagno…). Con successiva nota in data 29-10-2014 la direzione la Casa Circondariale di Verona ha confermato la misura della superficie lorda della cella aggiungendo un’approssimazione: “13,75 m² circa”.
Stante la differenza tra le misurazioni indicate e non essendo intervenuto nell’ultimo anno alcun ampliamento strutturale delle camere detentive della Casa Circondariale di Verona, è stata disposta una perizia al fine di determinare con esattezza la superficie delle camere detentive, degli arredi presenti, dell’annesso locale bagno e delle aperture verso l’esterno.

Il perito incaricato Geom.——–__ ha prodotto ampio, dettagliato e documentato (anche fotograficamente) elaborato peritale nel quale ha evidenziato che le camere detentive della sezione maschile sono di misura standard, che la maggior parte delle camere presenta una superficie calpestabile di 12,659 m², che solo 2 camere detentive per ogni braccio (quelle con doppia parete rivolta verso l’esterno e poste alla fine di ogni braccio) presentano una superficie calpestabile di 13,626 m², che le 6 celle destinate all’osservazione psichiatrica presentano una superficie calpestabile di 11,515 m² e che le camere detentive della sezione femminile presentano una superficie calpestabile di 12,551 m²; che tutte le celle sono dotate di annesso locale bagno di superficie superiore ai 5 m² (rispettivamente 5,92 m²; 5,187 m²;5,003 m²; 5,298 m² ).
Le misure degli arredi rilevanti ( secondo quanto sopra esposto) ai fini della determinazione dello spazio vitale riconosciuto al detenuto sono state indicate nella misura che segue: armadi pensili (posti ad altezza media dalla pavimentazione di circa 20 cm) pari a 0,185 m² cadauno ( pari quindi a 0,74 m² nel caso di 4 armadi) e radiatore pari a 0,06 m².
La dimensione utile della cella, secondo i criteri di computo sopra indicati, risulta quindi pari a 11,85 m² (12,659 m² – 0,74 m² – 0,06 m² = 11,85 m²).
Considerando quindi l’ipotesi di occupazione contemporanea della camera detentiva da parte di 4 detenuti, lo spazio vitale riconosciuto a ciascun detenuto è stato pari a 2,96 m², inferiore al limite minimo di 3 m² indicato dal CTP e dalla CEDU.
Dall’istruttoria disposta è, inoltre, emerso quanto segue.
Il detenuto ha fatto ingresso nella Casa Circondariale di Verona in data 18-3-2008, è stato ristretto ininterrottamente fino alla data attuale in varie camere detentive (sezione 1 corpo 1 cella 014 , cella 019, cella 018, cella 017, sezione 2 corpo 1 cella 044, sezione 4 corpo 4 cella 197, sezione 4 corpo 3 cella 248, sezione 5 corpo 3 cella 173, cella 151.
In detto periodo è stato ristretto insieme ad altri 3 detenuti per complessivi giorni: 1037.
Il reclamo è risultato quindi fondato nei limiti di qui di seguito esposti.
Deve ritenersi infatti accertata alla data odierna la violazione dei diritti del detenuto a causa di una condizione detentiva inumana e degradante per un periodo pari a giorni 1037 , superiore al periodo minimo di giorni 15 previsto dal art. 35 ter comma 1 OP e determinante quindi una riduzione della pena residua pari a giorni 103.
Tenuto conto della pena residua espianda ( fine pena 27.12.2014) , pari a giorni 45, deve disporsi la riduzione di pena relativa a giorni 45 ed applicarsi il criterio sussidiario indicato nell’art. 35 ter comma 2 OP liquidandosi euro 8 OP per ciascun giorno nel quale il condannato subito il pregiudizio in relazione alle residuo periodo (pari a giorni 58 ) e quindi un risarcimento pari ad euro 464.

P.Q.M.

Visti gli artt. 35 bis, 35 ter, 69 comma 6 O.P.;
accoglie il reclamo presentato da (…) (…) e per l’effetto dispone una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari a giorni 45;
liquida a favore di (…)(…) in relazione al residuo periodo e al titolo di risarcimento del danno la somma di euro 464.
Manda alla cancelleria per le previste comunicazioni all’interessato, alla Direzione della Casa Circ.le di Verona e alla Procura della Repubblica di Verona .

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