MOBBING SUL LAVORO: QUANDO SUSSISTE IL REATO?

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MOBBING SUL LAVORO: QUANDO SUSSISTE IL REATO?

Mobbing sul lavoro: quanso sussiste il reato? Quando la condotta del datore di lavoro viene punita dal codice penale?

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Quali sono i reati previsti dal Codice Penale?

Il codice penale tutela i soggetti che subiscono condotte vessatorie nell’ambito lavorativo (cd. Mobbing sul Lavoro): ci sono alcune condizione che, però, devono sussistere per poter ricondurre il fatto nell’ambito dei maltrattamenti previsti dall’art. 572 cod. pen. oppure dall’art. 612bis cod. pen..

Infatti, è bene subito chiarire, che all’interno del codice penale, non esiste un reato che espressamente punisce il cd. ‘mobbing’ sul posto di lavoro ma tale condotta può rientrare all’interno di altre ipotesi delittuose se – come detto – si verificano determinate circostanze.

Quali sono le circostanze necessarie per integrare il reato?

Gli elementi necessari per poter punire la condotta del datore di lavoro sono:

  1. condotte vessatorie;
  2. provocazione di stato di ansia perdurante;
  3. nonché il requisito della cd. ‘para-familiarità’ necessario per inquadrare la condotta del datore di lavoro nel reato di maltrattamenti in famiglia in ambito lavorativo.

La condotta di maltrattamenti in famiglia

Giova rammentare sul punto che la fattispecie di maltrattamenti in famiglia, tradizionalmente concepita in un contesto familiare, è stata nel tempo estesa – ed in tale senso è l’attuale disposto normativo dell’art. 572 cod. pen. – anche a rapporti di tipo diverso, di educazione ed istruzione, cura, vigilanza e custodia nonché a rapporti professionali e di prestazione d’opera.

Proprio avendo riguardo a tale ultima categoria di rapporti, la Suprema Corte di cassazione ha riconosciuto la possibilità di sussumere nella fattispecie dei maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità in contesto lavorativo la condotta di c.d. ‘mobbing sul lavoro’ posta in essere dal datore di lavoro in danno del lavoratore, quale fenomeno connotato da una

<<MIRATA REITERAZIONE DI PLURIMI ATTEGGIAMENTI REITERATI NEL TEMPO CONVERGENTI NELL’ESPRIMERE OSTILITÀ VERSO LA VITTIMA E PREORDINATI A MORTIFICARE E A ISOLARE IL DIPENDENTE NELL’AMBIENTE DI LAVORO, AVENTI DUNQUE CARATTERE PERSECUTORIO E DISCRIMINATORIO

(Cass. Sez. 5, n. 33624 del 09/07/2007, P.C. in proc. De Nubblio, Rv. 237439)

La cd. para-familarietà del rapporto

Avuto riguardo alla ratio dell’art. 572 c.p. – che si sostanzia quale delitto contro l’assistenza familiare – affinché la condotta persecutoria e maltrattante del datore di lavoro in danno del dipendente – ovvero, in ambito di rapporti professionali, del superiore nei confronti del sottoposto – possa essere sussunta nella fattispecie incriminatrice in parola è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzata dal tratto della “parafamiliarità”.

L’ampliamento ad opera della giurisprudenza del perimetro delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare ha invero lasciato invariata la collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice nel titolo dei delitti in materia familiare, di tal che, ai fini della integrazione del reato, non è sufficiente la sussistenza di un generico rapporto di subordinazione/sovra-ordinazione, ma è appunto necessario che sussista il requisito della para-familiarità, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.

La necessaria posizione di supremazia del datore di lavoro

Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è pertanto necessario che il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare (Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368).

Il turbamento psichico del lavoratore

Le reiterate condotte minacciose e moleste del datore di lavoro devono cagionare un serio perturbamento psichico al lavoratore; queste devono avere finalità di emarginazione e di compromette la di lui capacità produttiva all’interno dell’impresa e non solo.

Una pronuncia di merito (Trib. Taranto, 7.4.2014, n. 176, in De Jure), ha dichiarato penalmente responsabili due imputati per il delitto di atti persecutori nei confronti di un dipendente del loro stabilimento.

La possibile sussistenza del delitto di Stalking ex art. 612bis cod. pen.

Nella citata sentenza di merito, la parte offesa era stata sottoposta per lungo tempo e con una certa frequenza ad una serie di atti umilianti e dequalificanti, consistenti nel demansionamento ad un’altra funzione lavorativa di minor rilievo rispetto a quella precedentemente svolta, nell’isolamento in sala mensa attraverso la concessione della pausa pranzo in un orario differente da quello usuale, e nel divieto di utilizzare il bagno per i soggetti disabili, nonostante la vittima rientrasse in quella categoria individuale.

Così, le predette attività persecutorie avevano prodotto nel soggetto passivo un quadro clinico, caratterizzato da stati d’ansia e disturbo del tono dell’umore, con crisi di panico, che lo costrinsero all’assunzione di farmaci e sedativi.

Il datore di lavoro è stato dunque condannato per stalking ai sensi dell’art. 612bis cod. pen..

Secondo la Corte di cassazione:


«IL REATO DI STALKING RISPONDE ALLA RATIO DI TUTELA DELLA TRANQUILLITÀ DELLA VITA QUOTIDIANA PERSONALE DA COMPORTAMENTI CHE PRODUCANO ANSIE, PREOCCUPAZIONI, PAURE O ALTRE INFLUENZE PERTURBATRICI. RISPETTO A TALE FATTISPECIE, LA VIOLENZA PRIVATA COSTITUISCE UN’IPOTESI SPECIALE PER LA CUI CONFIGURAZIONE NON È SUFFICIENTE CHE NELLA VITTIMA SIA STATO PROCURATO UNO STATO DI ANSIA E DI TIMORE PER L’INCOLUMITÀ, BENSÌ RILEVA COME ELEMENTO SPECIALIZZANTE LO SCOPO DI COSTRIZIONE A FARE, TOLLERARE OD OMETTERE QUALCOSA, IMPEDENDO LA LIBERA DETERMINAZIONE DELLA PERSONA OFFESA CON UNA CONDOTTA IMMEDIATAMENTE PRODUTTIVA DI UNA SITUAZIONE IDONEA AD INCIDERE SULLA SUA LIBERTÀ PSICHICA»

(ex multis Rv. 248412, Rv. 250158, Rv. 252314)

Per ritenere sussistete l’ipotesi delittuosa del cd. ‘mobbing’ è dunque necessario che il lavoratore alleghi e provi che i provvedimenti del datore di lavoro siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

In tal senso il mobbing può definirsi in termini di <<mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro>> (cfr. Cass. Sez. V n. 31273 del 2020).

In questo caso si determina quell’effetto vessatorio proprio dell’art. 612bis cod. pen. e finalizzato alla prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie.

Il contesto (ambito lavorativo oppure no) è dunque irrilevante allorquando vi siano tutti gli elementi caratterizzanti la fattispecie normativa in disamina.

Come può essere punita la condotta del datore di lavoro?

Dunque, nel caso in cui ricorrano tutti gli elementi sopra descritti, si è in presenza di un fenomeno di cd. ‘mobbing sul lavoro’ che – a seconda dei casi – è tutelato dal codice penale sotto le norme previste dagli artt. 612bis cod. pen. e 572 cod. pen.. allorquando vi sia la ‘mirata riterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare a e isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro’ (cfr. Cass. n. 31273 del 2020).

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