Quando si parla di reati come quello di maltrattamenti in famiglia previsto dall’art. 572 del codice penale, è sempre complicato affrontare la difesa per una serie di ragioni. Non è mai facile giudicare quello che succede tra le mura domestiche.
La convivenza può giocare brutti scherzi: quando una donna denuncia, in quanto persona offesa, spesso la conseguenza è l’arresto del marito (o del compagno). Che cosa si può fare in questi casi?
In questo articolo voglio raccontarti di un caso che abbiamo recentemente affrontato, di quale strategia abbiamo adottato per ottenere da un lato la scarcerazione del nostro assistito e dall’altro la tutela della vittima.
Un compromesso che ci ha permesso di accontentare il nostro assistito: lasciare il carcere in cui era recluso.
Indice dei contenuti
Il caso del nostro assistito
Come ti ho anticipato, un nostro assistito veniva denunciato dalla convivente per i reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate.
Nel corpo della denuncia, in particolare, la compagna del nostro assistito lamentava diversi e reiterati episodi di violenza perpetrati anche alla presenza del figlio minorenne, sin dal 2015.
Stando alle dichiarazioni della persona offesa l’indagato sarebbe assiduo consumatore di sostanze alcoliche, vizio, questo, che si sarebbe acuito a seguito dell’aggravarsi delle proprie condizioni economiche.
La carcerazione
A seguito della denuncia e a seguito dell’assunzione di diverse fonti di prova testimoniali, il 5 agosto 2021 il nostro assistito veniva tratto in arresto, in forza dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice su richiesta della Procura della Repubblica, sulla base del pericolo che i fatti potessero aggravarsi.
In particolare, il GIP (Giudice per le indagini preliminari) riteneva di dovere applicare la misura più afflittiva (ovvero il carcere) in quanto ravvisava la possibilità che l’indagato ponesse in essere altre condotte violente e vessatorie nei confronti della compagna, o potesse, comunque, condizionarla, avvicinandola e convincendola a ritrattare le dichiarazioni rese o a sminuire i fatti per come li aveva ricostruiti in sede di denuncia; per il GIP sussisteva, quindi, il pericolo di “inquinamento” del mezzo istruttorio consistente nelle parole della persona offesa.
Nel corso dell’interrogatorio di garanzia, l’indagato negava gli addebiti, professandosi innocente e veniva, dall’allora difensore, avanzata richiesta di sostituzione della misura cautelare con quella meno afflittiva degli arresti domiciliari.
Il GIP, tuttavia, riteneva che per fondare un’ordinanza di sostituzione della misura cautelare occorresse un mutamento delle esigenze cautelari o degli indizi a carico dell’indagato, e siccome nessuna di queste due condizioni veniva soddisfatta, rigettava l’istanza e disponeva, pertanto, che l’indagato rimanesse all’interno del carcere.
L’istanza di scarcerazione
L’indagato si rivolgeva, dunque, al nostro Studio Legale Avvocato Penalista H24 per ottenere la scarcerazione e sostituire la misura della custodia cautelare in carcere con quella meno afflittiva degli arresti domiciliari.
Il nostro avvocato esperto in maltrattamenti, analizzata la vicenda e valutati gli elementi a carico proprio Assistito, vagliati attentamente quelli che erano le esigenze cautelari poste a fondamento dell’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, si attivava immediatamente al fine di reperire un domicilio idoneo dove l’indagato potesse essere sottoposto agli arresti domiciliari, distante dal luogo in cui si assumevano commessi i fatti.
Ed infatti, considerato che il Giudice per le indagini preliminari riteneva sussistenti il pericolo di reiterazione del reato, che si configurava nei confronti della compagna nel territorio di Andria, e il pericolo di inquinamento probatorio determinato da un possibile contatto tra l’indagato e la persona offesa, residente ad Andria, l’Avvocato riteneva sostenibile una richiesta di sostituzione della misura della custodia cautelare solo “allontanando” l’indagato dai luoghi in cui avrebbe potuto commettere i reati allo stesso ascritti.
Veniva, pertanto, reperito un domicilio per l’indagato, presso la residenza di un familiare dello stesso, che si dichiarava disponibile ad accoglierlo e economicamente solido, così da poterlo mantenere.
L’abitazione in cui l’indagato sarebbe stato sottoposto alla misura degli arresti domiciliari si trovava in Emilia Romagna, regione diversa da quella dove venivano commessi i fatti.
I Professionisti del nostro Studio Legale redigevano, pertanto, istanza di scarcerazione e di sottoposizione alla misura degli arresti domiciliari in favore del proprio Assistito, allegando la dichiarazione di disponibilità del parente dell’indagato, rendendo noto il suo consenso all’applicazione della misura mediante il cd. ‘braccialetto elettronico’ e rilevando come il lungo tempo decorso dal momento di applicazione della misura aveva consentito all’indagato di rimeditare a ciò che aveva fatto, sicché il tempo trascorso ben avrebbe potuto affievolire le esigenze cautelari poste a fondamento del provvedimento di applicazione della misura custodiale.
Nel corpo dell’istanza si specificava anche che l’indagato, nel frattempo raggiunto da decreto di giudizio immediato, aveva formulato richiesta di definizione del procedimento mediante le forme del rito abbreviato, il che presuppone una decisione allo stato degli atti, che “blinda” l’accusa e non consente, quindi, alla persona offesa di modificare le dichiarazioni rese.
Anche tale elemento, pertanto, neutralizzava del tutto il pericolo di inquinamento probatorio, posto a fondamento dell’ordinanza custodiale che aveva raggiunto il nostro Assistito.
Gli elementi indicati (la dichiarazione di disponibilità all’accoglienza formulata dal familiare dell’indagato, in luogo distante da quello dei fatti denunciati, il lungo tempo decorso dal momento della carcerazione del nostro Assistito e la richiesta dello stesso di definizione del procedimento cui è sottoposto mediante le forme del rito abbreviato) rientrerebbero, secondo quella che è stata la linea difensiva assunta, nel concetto di “elementi nuovi”, richiamati dall’art. 299 c.p.p. idonei a modificare le esigenze cautelari poste a fondamento del provvedimento restrittivo e, pertanto, idonei a modificare la misura cautelare.
La decisione del Giudice
Inoltrata l’istanza, e notificata anche alla persona offesa, come prescritto dal Codice di rito a pena di inammissibilità, il Giudice per le indagini preliminari (che era lo stesso che aveva disposto la carcerazione del nostro Assistito) accoglieva la stessa, rilevando che gli elementi addotti dalla difesa fossero idonei a provare un affievolimento delle esigenze cautelari, le quali ben potevano essere assolte mediante l’applicazione di una misura cautelare meno gravosa, quale quella degli arresti domiciliari mediante l’utilizzo del cd. braccialetto elettronico, in luogo distante da quello di presunta consumazione dei reati ascritti.
Il Giudice, infatti, a fondamento della propria decisione rilevava, tra gli altri elementi, il fatto che
“le esigenze cautelari si sono attenuate e possono essere salvaguardate con la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari in ragione del tempo decorso dall’esecuzione della misura cautelare il quale si ritiene abbia costituito efficace remora alla commissione di delitti della stessa specie di quelli in relazione ai quali si procede”.
Per il nostro studio legale è stato davvero importante ottenere questa scarcerazione: il nostro assistito si è trovato in una non semplice situazione ed andava certamente aiutato ed il carcere non è la soluzione dei problemi.
Nel corso del processo sarà nostra intenzione dimostrare la insussistenza delle accuse per ottenere una piena e totale assoluzione a vantaggio del nostro assistito così come abbiamo fatto per un altro caso del genere.
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